
Nel dare il proprio contributo a un recentissimo volume dedicato a Rawls e alla religione, Abdullahi A. An-Na’im, con riferimento alla formazione della «ragione pubblica», definisce «semplicemente ingiusto, o discriminatorio» escludere una visione del mondo solo perché religiosa e senza tenere conto di quanto essa abbia «da dire» sulle questioni che si affrontano. Si tratta di una sorta di «censura preventiva», che inibisce l’esercizio di un diritto fondamentale come la libertà di credere e praticare una religione. Secondo lo studioso, tutti dovrebbero essere incoraggiati a impegnarsi nel pubblico dibattito, purché tengano una condotta civica accettabile. In particolare, escludendo le religioni dalla ragione pubblica, Rawls «le tratta come se fossero isolate e chiuse», non soggette a contestazioni interne, come se l’ambito “secolare” e quello “religioso” potessero essere rigidamente e «ordinatamente» tenuti separati. Una tale visione, in particolare, aiuta poco a capire il pensiero politico islamico, che è soggetto a una continua evoluzione critica, in un complesso rapporto con la sfera secolare (Rawls and Religion, a cura di T. Bailey e V. Gentile, New York, Columbia University Press, 2015). Sono anni che lo studioso sudanese, storico interlocutore del filosofo americano, lavora a una riforma dell’Islam, che renda praticabile una via islamica al costituzionalismo. Lo sforzo è diretto, da una parte, a mettere in discussione le interpretazioni radicali della Sharia, attraverso un’analisi della sua evoluzione, e, dall’altro, a mettere in discussione l’idea che il costituzionalismo presupponga la neutralizzazione del fattore religioso sotto il profilo socio-politico. Si tratta di uno sforzo comune a moltissimi studiosi islamici contemporanei. In questo senso, la strage di Parigi del 7 gennaio 2015 segna sicuramente uno spartiacque. La questione andrà attentamente monitorata da parte degli analisti occidentali, tenendo conto di due ordini di problemi, strettamente intrecciati tra loro. Il primo è di natura eminentemente culturale. Si tratta del duplice rischio di cadere nell’“orientalismo” (quando, ad esempio, si tratta l’Islam alla stregua di un fenomeno etnico-culturale, trascurandone la dinamicità geopolitica) o, in alternativa, di restare arroccati in una visione eurocentrica dello spazio pubblico (quando, ad esempio, si stabilisce una relazione meccanica tra “secolarizzazione” e “democratizzazione”). Il secondo è di natura più specificamente politica e riguarda la consapevolezza che il paradigma della “neutralizzazione” dell’elemento identitario, in generale, e di quello religioso, in particolare, nello spazio pubblico si sta dimostrando alquanto inadeguato nella gestione delle società multi-etniche (la legge francese anti-burqa può ben passare lo scrutinio di Strasburgo – v. ECHR, S.A.A. v. France 43835/11, 1-7-2014 – ma ciò non impedirà a molte donne islamiche francesi di reclamare, anche con veemenza, il “diritto” di coprirsi secondo la propria tradizione e di alimentare, per questa via, le tensioni etnico-religiose nel Paese)... (segue)
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