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NUMERO 3 - 11/02/2015

 Il senso rinnovato della specialità nel futuro assetto macro regionale della Repubblica

L’idea di ridisegnare la fisionomia della Repubblica, procedendo ad una nuova definizione dei confini territoriali delle attuali Regioni, sembra trovare accoglimento non solo al livello politico nazionale ma anche tra gli organi di governo degli enti substatali. I governatori di diverse Regioni si sono espressi favorevolmente in merito ad una riforma della Costituzione che ne contempli un accorpamento, al fine di allargare il numero di abitanti per ogni Macro Area (fino a 10 milioni) o, in alternativa, realizzare un meccanismo attraverso cui le Regioni potrebbero optare per lo svolgimento associato di alcune funzioni nel segno del risparmio delle risorse pubbliche e della efficienza dei servizi resi ai cittadini. La proposta è quella di procedere con l’abolizione dell’art. 131 della Costituzione (dove sono elencate le Regioni attualmente esistenti) e sottoporre il nuovo assetto territoriale al parere dei consigli regionali e  alla consultazione dei cittadini tramite referendum. Siffatto procedimento di variazione territoriale deve, infatti, assecondare l’esigenza di contemperare la concentrazione del potere politico a livello dello Stato centrale attraverso la partecipazione delle popolazioni interessate. Il riordino dell’articolazione spaziale dell’ordinamento italiano potrebbe avvenire con la modifica dell’art. 132, aumentando il numero minimo di abitanti necessario per la costituzione di una Regione. Il dibattito intorno alla istituzione delle Macro Regioni riguarda inevitabilmente anche il destino della specialità se, vale a dire, sia ancora attuale un’architettura  istituzionale imperniata su due tipologie di Regioni, distinte sulla base del tipo di Statuto. E, in particolare, l’interrogativo riguarda le motivazioni che possano giustificare, dopo la riscrittura del Titolo V, il riconoscimento alle Regioni differenziate di un ambito “peculiare” di autonomia rispetto a quelle ordinarie. Orbene, difficilmente si potrebbe sostenere che le ragioni storiche  fondative del doppio binario omogeneità – specialità  siano odiernamente dotate di validità. Ed invero i profili identitari e politici, che in Assemblea Costituente costituirono il fondamento della specialità, andrebbero ripensati alla luce della disciplina contenuta negli articoli 114 e 116 della Costituzione. I principi introdotti con la novella del 2001 delineano un nuovo modello di pluralismo istituzionale inclusivo della vocazione autonomista delle cinque Regioni. A ben guardare, infatti, le moderne formule di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione paiono immaginate proprio allo scopo di realizzare un modello in cui “le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” costituiscono l’essenza stessa di una fase di rivisitazione del principio pluralistico, pur sempre in linea di continuità con i principi sanciti nell’art. 5 Cost. Da questa prospettiva, i cambiamenti apportati con la legge costituzionale n. 3 del 2001 sembrano dar conto dell’evoluzione del regionalismo italiano a seguito del mutare delle condizioni economiche, politiche e sociali. L’orizzonte costituzionale è definito dalla creazione di un diritto comune delle Regioni capace di fornire strumenti innovativi e giovare anche alle prerogative della specialità. Difatti, con la previsione contenuta nell’art. 10 della l.cost.n.3 del 2001 le forme più vantaggiose di autonomia introdotte per le Regioni ordinarie sono state estese anche alle speciali. La clausola di maggior favore costituisce, invero, declinazione del principio di massima espansione delle specialità cui vanno garantite le competenze che la novella costituzionale ha attribuito alle Regioni di diritto comune... (segue)



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