
Qualunque tipo di ragionamento si voglia fare sulle Regioni italiane deve partire da una duplice constatazione che non vuole negare altri fattori, semplicemente considerarli meno determinanti. La prima è che esse costituiscono l’esito di un ragionamento giuridico, più che il prodotto di una aggregazione culturale, sociale ed economica. Basti rammentare come, dopo la prima stagione costituente dello Stato italiano unitario - in cui prevalse la linea di continuità con il Regno di Sardegna e fu completamente sconfitto il progetto di regionalizzazione di Minghetti e Farini, - nella stagione costituente repubblicana esse furono identificate in maniera “artificiale”, recuperando la suddivisione a fini statistici del territorio nazionale operata dal Maestri nel 1864. La seconda è che, forse proprio come conseguenza della prima constatazione, il modello costituzionale di Regione che ci viene consegnato dalla Costituzione del 1948 non esprime una sensibile differenza rispetto al modello statale, di ente a fini generali. I Costituenti non discussero dell”adeguatezza” del nuovo ente rispetto alle esigenze del Paese, quanto dell’”opportunità” di avere un altro ente legislativo oltre lo Stato. Non discussero, cioè, delle Regioni quali ipotetici modelli di organizzazione amministrativa e politica differenziata rispetto allo Stato, in considerazione delle diversità fattuali del Paese, bensi’, appunto, della razionalità di una scelta che sostanzialmente aggiungeva ai precedenti enti un ente molto simile allo Stato. Nella Costituzione del 1948, perciò, il modello di Regione non si differenzia qualitativamente dallo Stato: ente a fini generali, dotato degli stessi poteri statali di legislazione e amministrazione, seppure di consistenza quantitativamente minore. Questo modello soffriva fin dall’inizio di limiti evidenti, e cioè della sottovalutazione di quelle diversità fattuali mai completamente venute meno dall’Unificazione ad oggi (sviluppo industriale, identità territoriali…) che condussero un’attenta dottrina a sostenere che le Regioni erano entrate “in un cono d’ombra” (Cheli) già a partire dalla loro prima legislatura. A quei limiti se ne sono sommati altri e, tra i pù recenti, quelli provocati dall’ U.E., la cui produzione normativa ha derubricato molti poteri legislativi regionali a rango quasi-regolamentare e, soprattutto, le cui modalità di intervento economico individuano le “regioni” in modo del tutto flessibile rispetto ai confini territoriali, a seconda delle politiche che si intendono incentivare (v. i fondi strutturali che considerano le regioni non singolarmente ma per macro-aggregati, a volte addirittura inter-statuali)... (segue)
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