Una riflessione sul tema della protezione delle minoranze linguistiche storiche e delle lingue minoritarie nell’ordinamento italiano richiede oggi, diversamente da un passato non troppo lontano, uno sguardo (ancora più) attento e aperto alle dinamiche che attraversano ormai, quotidianamente ed irreversibilmente, il nostro tessuto sociale. In verità, quelle dinamiche interessano, sebbene in misura non identica, pressoché tutti i paesi dell’Unione europea considerati pluralisti, plurilingui ed economicamente sviluppati. Ovunque, in questo variegato panorama geo-politico-culturale, infatti, le comunità minoritarie autoctone si trovano di fronte ad una duplice sfida. Da un lato, esse avvertono la “minaccia” derivante non tanto dalla comunità di lingua e cultura maggioritaria, come poteva essere in epoche più risalenti, quanto dalla condivisione del loro spazio tradizionale, sia fisico che immateriale, con le c.d. nuove minoranze e le loro lingue. Si tratta, come è noto, delle comunità composte da immigrati, provenienti da paesi che non appartengono all’Unione europea e regolarmente soggiornanti, i quali vorrebbero potersi integrare appieno nella società di accoglienza, magari facendosi raggiungere dai propri familiari, senza con ciò dover rinunciare alla loro identità storica, linguistica, culturale e religiosa. Dall’altro lato, le lingue delle minoranze autoctone sono costrette a misurarsi – almeno fuori dal Regno Unito – con la progressiva diffusione della lingua inglese, quale lingua dell’istruzione universitaria e specialistica, della formazione professionale e della comunicazione nei rapporti di lavoro sia pubblici che privati. Peraltro, a quelle sfide risultano esposte sia le lingue minoritarie, sia, per certi versi, la/e lingua/e di stato. In sostanza, i flussi migratori da stati terzi e la potenza omologante dell’inglese hanno modificato profondamente la trama delle relazioni tra maggioranza e minoranze, nonché gli usi linguistici di molti paesi europei, specialmente di quelli la cui lingua ufficiale non gode del prestigio attribuito all’inglese, al francese o persino al tedesco, comunemente percepite come lingue forti o egemoni nel vecchio continente. Di queste trasformazioni non potevano non risentire anche il nostro paese e i diversi codici linguistici qui tradizionalmente impiegati. Ne risulta una situazione ben più articolata e complessa di quella che poteva delinearsi fino a qualche lustro addietro e che mette sotto pressione non soltanto gli idiomi minoritari autoctoni, ma altresì la stessa lingua nazionale, al punto da rinverdire, ancora nella attuale legislatura, il dibattito sulla opportunità di costituzionalizzare l’ufficialità dell’idioma gentil sonante e puro. D’altro canto, la riforma della legislazione in materia di immigrazione ha introdotto, da qualche anno, il requisito del superamento di un test di conoscenza della lingua italiana per gli stranieri extra UE, legalmente soggiornanti sul territorio dello stato e aspiranti al rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo, oltre al fatto che l’apprendimento della lingua italiana è previsto anche nel c.d. accordo di integrazione che lo straniero, in possesso di regolare titolo di soggiorno, è tenuto a sottoscrivere al momento dell’ingresso in Italia. L’indagine dei profili accennati non può non prendere le mosse dalla ricostruzione dei principi costituzionali e normativi predisposti a tutela delle minoranze linguistiche. A tale scopo, l’inquadramento della protezione delle minoranze linguistiche nel contesto internazionale ed europeo appare, oggi più che mai, imprescindibile. Il richiamo alla giurisprudenza della Corte costituzionale, sia precedente che successiva alla adozione della legge 482/1999, consentirà inoltre di individuare alcuni spunti evolutivi nella interpretazione dello statuto delle minoranze linguistiche e delle lingue minoritarie che se, da un lato, sono espressivi di tendenze restrittive nella definizione del ruolo regionale, dall’altro lato, mostrano segnali di apertura verso il riconoscimento della ricchezza del patrimonio linguistico e culturale minoritario che non si esaurisce nel patrimonio delle minoranze linguistiche di antico insediamento. Il tutto mentre si attende una presa di posizione del giudice costituzionale sulla legittimità della previsione legislativa che esorta gli Atenei della penisola all’impiego dell’inglese per la erogazione dei corsi di studio, in quanto lingua funzionale all’obiettivo della internazionalizzazione. Infine, de jure condendo, non mancheranno alcuni cenni critici al testo di riforma costituzionale in discussione in parlamento che, con l’introduzione di nuove disposizioni, sembra aprire spazi a una serie di dubbi più che rafforzare lo statuto delle minoranze linguistiche... (segue)
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