Sovente sottolineato, sia nei documenti istituzionali che in dottrina [Brunelli 2014; Chinni 2015; Romboli 2015], è lo stretto legame fra la proposta di introduzione del voto a data certa e la finalità di prevenzione del ricorso eccessivo al decreto-legge da parte del Governo. Assumendo, infatti, che quest’ultima “prassi”, così come i fenomeni di abuso degli strumenti del Governo in Parlamento, siano determinati dalle incertezze e dalle lungaggini del procedimento legislativo [ma si condivide qui l’opinione per cui non è tanto in questa sede che vanno ricercate le cause di tali abusi, quanto nelle difficoltà del sistema dei partiti e nella mancanza di correttezza istituzionale; cfr. Cerrone 2014, Chinni 2015], si è voluto introdurre in Costituzione un istituto che possa garantire all’Esecutivo la priorità di iscrizione all’ordine del giorno e tempi di discussione e deliberazione parlamentare contenuti entro una data certa, rientrante fra i 70 e gli 85 giorni dalla presentazione del disegno di legge. La proposta non è nuova. Se ne può trovare traccia, sia pur con diversa formulazione, già nella bozza di revisione costituzionale approvata dalla Commissione Bicamerale del 1997, dove il procedimento “a data determinata” veniva abbinato all’introduzione del “voto bloccato” alla francese, ossia alla previsione per cui, ove la data fissata fosse decorsa infruttuosamente, l’Esecutivo avrebbe potuto domandare la deliberazione (articolo per articolo e finale) sul testo proposto dal Governo o sugli emendamenti da esso approvati, senza ulteriori possibilità di modifica da parte delle Camere [v. E. Longo 2014; Azzariti 2014]. Analoga combinazione si poteva rinvenire anche nelle varie proposte di revisione costituzionale che si sono succedute in questi anni e – ciò che in questa sede più conta – nel disegno di legge di revisione costituzionale presentato dal Consiglio dei Ministri ed il cui esame è attualmente in corso, dal quale però la Camera dei deputati, in seconda lettura, ha eliminato l’istituto del voto bloccato. Può essere importante ricordare l’originaria formulazione della disposizione, poiché da essa emergeva una rilevante finalizzazione del procedimento legislativo a data certa: quella di farsi mezzo per “blindare” i progetti di legge interessati, ossia di farsi strumento incidente non soltanto sui tempi della discussione e della deliberazione, ma anche sui contenuti della legge parlamentare. Occorre infatti domandarsi quale sia il “destino” di tale ulteriore finalizzazione, poiché se la sua rimozione si deve alla volontà di escludere una sì forte ingerenza governativa [Grisolia 2015], d’altro canto la mancata previsione di conseguenze alternative in caso di decorso infruttuoso del termine, combinata all’introduzione di una condizione di esperibilità del procedimento prima non prevista, rischiano di produrre surrettiziamente analoghi effetti. Si fa riferimento, in particolare, alla clausola secondo cui il disegno di legge deve essere «indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo»; clausola dai labili confini, che, come ha sottolineato la dottrina, si presta ad abusi ancor più della “straordinaria necessità ed urgenza” [Azzariti 2014]. Un primo ordine di problemi sollevati da tale requisito attiene alle reali possibilità del dibattito parlamentare sul disegno di legge interessato: può la Camera dei deputati modificare un disegno normativo ritenuto dal Governo essenziale per l’attuazione del suo programma? E, dinnanzi all’ipotesi di una legge che esca stravolta dall’esame parlamentare, ciò non dimostrerebbe l’esistenza di un dissenso su uno degli elementi essenziali su cui si articola il rapporto di fiducia? Allora, quali conseguenze immaginare per il verificarsi di tali eventualità? La mancanza di qualunque indicazione nel testo costituzionale attualmente proposto non aiuta alla soluzione del problema e, anzi, la affida con ogni probabilità al regolamento della Camera (cui fa espressamente rinvio per la disciplina di «modalità e limiti» del procedimento) ed alla legge attuativa dei poteri del Governo che sarà necessaria in caso di esito positivo della revisione costituzionale. Tali interventi però, ad opinione di chi scrive, dovranno ritenersi limitati e vincolati dalla sopra ricordata modifica della disposizione. In particolare, dovrà intendersi impedita la reintroduzione di ciò che la revisione costituzionale esplicitamente ha escluso: l’inemendabilità del disegno legislativo. Il silenzio costituzionale, tuttavia, non consente di fare previsioni attendibili circa l’interpretazione che ne vorrà dare una Camera ove le istanze della maggioranza saranno particolarmente forti – se non sovrarappresentate – per via della nuova legge elettorale e, dunque, sarà necessario prendere in considerazione sia la prospettiva qui sostenuta sia quella opposta, con l’avvertenza che entrambe appaiono problematiche: quella qui preferita, perché svuoterebbe l’istituto di molta della forza che i proponenti intendono imprimergli; quella opposta, perché avvierebbe alla possibilità di ingerenze governative sul procedimento legislativo decisamente pericolose... (segue)