L’ultimo tassello nel riconoscimento giurisprudenziale dell’adozione coparentale è costituito dalla sentenza 12962 del 26 maggio 2016, con la quale la Corte di cassazione ha riconosciuto l’adozione della figlia minore proposta dalla compagna della madre biologica (c.d. stepchild adoption). La Suprema Corte, respingendo il ricorso proposto dal procuratore generale, ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Roma con la quale è stata accolta la domanda di adozione della minore da parte della partner della madre. Viene in rilievo, dunque, l’istituto dell’adozione, che ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a), della legge n. 184 del 1983 (come novellata dalla legge n. 149 del 2001), disciplina la c.d. adozione legittimante, consentita al fine di preservare il rapporto tra il minore e la famiglia con la quale ha già intessuto relazioni parentali e affettive. È necessario, peraltro, che si tratti di un rapporto che abbia carattere stabile e duraturo, allo scopo di garantire opportuna tutela al minore da adottare, in aderenza alla ratio nella normativa. La lettera b) del comma 1 afferma la possibilità di accedere alla procedura in considerazione da parte del coniuge che adotta il figlio minorenne dell’altro coniuge. È evidente che, anche in questo caso, vi è alla base un rapporto familiare tra il genitore adottante e il minore, da preservare in ragione della sussistenza del rapporto di coniugio con l’altro genitore. Tale ipotesi è volta a tutelare, analogamente a quanto previsto dalla lettera a), la crescita psicofisica del minore nell’ambito di un nucleo familiare preesistente e a lui noto. Ai sensi, invece, della lettera d) della disposizione citata – che interessa, peraltro, la nostra vicenda – la legge consente l’adozione in “casi particolari”, ovvero quando il minore si trovi in una condizione di particolare disagio. In particolare, la norma consente di accedere alla procedura di adozione nel caso in cui sia constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo, che può derivare dall’assenza dei presupposti necessari per richiedere l’adozione piena ovvero per impossibilità di fatto (ad esempio, in caso di procedure di adozione interrotte). In ogni caso, al fine di aprire la procedura d’adozione, è necessario il consenso dei soggetti interessati, il possesso di determinati requisiti (es. età), nonché la sussistenza della dichiarazione di adottabilità, che accerti l’effettivo stato di abbandono del minore. Ciò premesso, la Corte di cassazione, nella pronuncia in questione, ha affermato il principio di diritto secondo il quale all'adozione “in casi particolari”, prevista dall’articolo 44, lett. d), della legge 184 del 1983, “possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto” e che “l’esame dei requisiti e delle condizioni … non può essere fatto indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questa stabilita con il proprio partner”. I giudici hanno peraltro chiarito che l’istituto dell’adozione in casi particolari che viene in rilevo tende a garantire le “relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con il minore”. Pertanto, nella vicenda in esame, l’adozione, a giudizio della Corte, “non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l'eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice”. E, inoltre, “prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempre che, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore”... (segue)
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