Approssimandosi l’udienza del 24 gennaio 2017 sulle molteplici questioni di costituzionalità della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cd. Italicum risultante dalla legge 6 maggio 2015, n. 52), sollevate da cinque Tribunali sulla scia del precedente rappresentato dalla sentenza n. 1 del 2014, le “pressioni di contesto” che si manifestano nei confronti della Corte costituzionale sono ben diverse da quelle che si presentavano allorché la Corte, prima del rinvio dell’udienza originariamente fissata per il 4 ottobre 2016, si apprestava a decidere sulle prime questioni inizialmente sollevate. Nuove letture tendono ad affermarsi nella discussione pubblica. Dalla possibile strumentalità – in senso favorevole o contrario - che era stata intravista tra la pronuncia della Corte sull’Italicum rispetto al successivo voto popolare sulla riforma costituzionale, si è passati a considerare l’eventuale effetto agevolativo o, all’opposto, ostativo che la decisione della Corte produrrebbe in relazione al percorso verso lo scioglimento anticipato delle Camere che è auspicato, seppure in viario modo, da una parte consistente delle forze politiche. Più esattamente, sino al 19 settembre 2016, quando l’udienza pubblica è stata rinviata a nuovo ruolo cioè, in pratica, ad una data da stabilirsi successivamente al referendum popolare, sullo sfondo del giudizio di costituzionalità si stagliava con prepotenza la legge di revisione costituzionale appena approvata dal Parlamento. Anche il dibattito sulle questioni di costituzionalità dell’Italicum finiva per coinvolgere più o meno latamente la riforma costituzionale, considerata la stretta e reciproca connessione che si era determinata, sin dalle fasi prodromiche, tra il progetto di revisione della seconda Parte della Costituzione e la nuova legge elettorale della Camera dei deputati. Entrambe le riforme, tra l’altro, erano il frutto del medesimo accordo politico, il cosiddetto “Patto del Nazareno” determinatosi a partire dal gennaio 2015 tra Renzi, allora solo segretario del PD, e Berlusconi, il principale leader dell’opposizione. L’interdipendenza tra le due riforme risuonava anche nei passaggi delle ordinanze di rimessione ove alcune argomentazioni richiamavano una sorta di peculiare ed originalissimo “combinato disposto” risultante dall’approvata – anche se non ancora vigente, e comunque non applicata - legge elettorale maggioritaria per la Camera dei deputati, e dalla riforma costituzionale ancora soltanto in potenza e che avrebbe potuto ridisegnare il futuro assetto del bicameralismo, assegnando proprio la Camera posizione prevalente nell’esercizio della funzione legislativa ed esclusiva titolarità nel rapporto di fiducia con l’esecutivo. In particolare, ciò era evidente nell’ordinanza del Tribunale di Messina, la prima ad essere sollevata sull’Italicum innanzi alla Corte costituzionale e per di più nel febbraio del 2016, ovvero addirittura prima ancora del conclusivo voto parlamentare della riforma costituzionale (avvenuto il 12 aprile del medesimo anno). Il Tribunale rilevava che i presunti aspetti critici di questa normativa connessi alla cosiddetta “impronta maggioritaria” – ossia la previsione della soglia del 40% dei voti validi senza alcun riferimento agli aventi diritto al voto o ai votanti, il premio attribuito al ballottaggio senza prevedere una soglia minima di votanti e di voti validi per accedere al ballottaggio stesso, e la previsione della soglia di sbarramento del 3% - andavano attentamente considerati proprio alla luce del fatto che con la riforma costituzionale (come detto, ancora in fieri) la Camera dei deputati sarebbe diventata l’unica Assemblea costituita mediante la diretta espressione della sovranità popolare e come organo direttamente rappresentativo. La prospettiva di riforma costituzionale, pertanto, imponeva ancor più che il principio maggioritario fosse “adeguatamente contenuto” nella legge elettorale (cfr. il punto 6.4 dell’ordinanza)... (segue)
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