L’idea di una tutela dell’accesso all’acqua come diritto fondamentale rende la disciplina del servizio idrico un tema particolarmente sensibile in tutti gli ordinamenti nazionali. Anche la lunga e tortuosa evoluzione della disciplina di affidamento dei servizi pubblici locali in Italia ha visto spesso emergere nei dibattiti le esigenze peculiari di questo settore, che in numerose occasioni hanno rivestito un ruolo politico-culturale determinante nell’indirizzare i processi di riforma. Gli interventi normativi succedutisi nel tempo, il significato politico del referendum del 2011, e numerose pronunce del Consiglio di stato e della Corte costituzionale cruciali per tratteggiare la fisionomia generale del sistema dei servizi pubblici locali, sono state originate da questioni inerenti la gestione dell’acqua pubblica. L’acqua pubblica si è così presentata come un valore e un termine di paragone imprescindibile, tale per cui – quando si fissano principi di servizio pubblico – il primo banco di prova per gli stessi è proprio la loro accettabilità nella gestione del sistema idrico. Questa centralità si è riflessa da un lato nelle continue tensioni e riforme della disciplina nazionale, dall’altro in un’attenzione prestata anche dalle autonomie territoriale alla miglior disciplina delle acque, posto che il tema ha assunto politicamente (ed ha sempre rivestito) una rilevanza non trascurabile per gli interessi regionali. La recente vicenda della legge regionale siciliana 11 agosto 2015, n. 19 (Disciplina in materia di risorse idriche) si presenta come particolarmente interessante in questo panorama normativo e giurisprudenziale. La disciplina della Regione Sicilia del 2015 è stata infatti approvata dall’autonomia speciale di un territorio nel quale l’acqua si presenta come un bene particolarmente strategico e prezioso, e l’Assemblea regionale ha voluto approvare soluzioni organizzative e normative originali e distanti dal quadro consolidato a livello nazionale. Proprio tale distanza ha portato la Corte costituzionale ad annullare numerose parti della normativa, intervenendo con la sentenza 4 maggio 2017, n. 93; pronuncia che non elimina le ragioni di interesse per una soluzione normativa autonoma che nelle intenzioni del legislatore regionale doveva portare ad una ri-pubblicizzazione del settore idrico, scongiurando l’incremento delle tariffe registrato nelle aree di precedente privatizzazione, ma che fornisce anche un’utile occasione per definire come e in che estensione il legislatore regionale può intervenire in materia. La sentenza assume un particolare interesse anche per il porsi della vicenda nella scia lunga del referendum c.d. sull’acqua del 2011. Se certamente la pronuncia della Corte costituzionale non “azzera” l’esito referendario, il quale pure nell’intenzione del legislatore regionale costituiva un elemento legittimante complementare, nondimeno anche questa sentenza – come l’evoluzione normativa successiva all’abrogazione popolare dell’art 23 bis – è emblematica delle esigenze di coordinamento tra valori fondamentali sottesi alla volontà popolare, quale l’accezione in termini di “beni comuni” di alcuni servizi pubblici, non suscettibili di processi di forzata privatizzazione, e i valori di efficienza e concorrenzialità. Tra le posizioni politiche di chi denuncia i pericoli di cancellazione giurisprudenziale dell’esito referendario, con limitazione dell’autonomia siciliana, e quelle di chi vedeva nella dichiarazione di incostituzionalità la certificazione della natura ideologica di una disciplina di contrasto alla privatizzazione del settore idrico, la Corte costituzionale sceglie di intervenire con una pronuncia fortemente neutra nelle argomentazioni, che prende posizione in chiave strettamente tecnica su singoli profili della normativa... (segue)
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