
A breve, la Corte costituzionale dovrà decidere circa un caso generatosi dalla successione di strumenti di regolazione del cognome comune per le persone dello stesso sesso unite civilmente. La quaestio è originata da una ordinanza di rinvio del Tribunale di Ravenna che dubita della costituzionalità dell’apparato normativo di riferimento. Dopo un primo periodo di vigenza in cui era consentito alla coppia di scegliere un cognome comune che un partner poteva sostituire, aggiungere o posporre al proprio, il legislatore ha invece ristretto questa possibilità. Così, dapprima la “legge Cirinnà” – l. 20 maggio 2016, n. 76 – aveva riconosciuto alle persone che si univano civilmente la possibilità di scegliere un cognome comune, ammettendo, in sede di costituzione dell’unione civile, due possibili (eventuali) dichiarazioni, ossia la dichiarazione di scelta del cognome comune dell’unione civile, individuato quale cognome di entrambe le parti, e una seconda, di natura individuale, della parte il cui cognome non è stato scelto, con cui la stessa dichiara di continuare a mantenere anche il proprio patronimico, accanto a quello comune dell’unione, cui viene anteposto o posposto. Questa possibilità era stata interpretata dalla dottrina come cagione di una modifica anagrafica per la parte dell’unione che sostituiva il proprio cognome o aggiungeva, posponendo o anteponendo, il cognome del partner al proprio, in quanto individuato come “comune”. Simile aspetto delle unioni era stato peraltro giudicato come fortemente innovativo, persino avanguardista, e in qualche modo “migliorativo” rispetto al regime matrimoniale; in particolare, ne erano state rilevate la democraticità e flessibilità, considerando come, nonostante l’intervento della Corte, la moglie ancor oggi aggiunge il cognome del marito al proprio senza possibilità alternative… (segue)
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