Una indagine intorno a un (supposto) “effetto Marx” sui giuristi (in genere, ma in particolare quelli) italiani, se da un lato richiederebbe un’estensione enormemente più ampia di quella che è possibile rendere in queste pagine, dall’altro rischia di scivolare in un colossale equivoco sulla natura, sui confini e soprattutto sull’esistenza stessa di un oggetto siffatto. Quindi, probabilmente parlerò più dell’equivoco che dell’effetto Marx sul diritto, ma è da questo che, comunque, si deve partire. In primo luogo, Marx. Ma quale Marx? Il Marx-militante, quello dell’«ora basta interpretare, ora si tratta di cambiare» e «a ciascuno secondo i propri bisogni, da ciascuno secondo le proprie capacità», arricchito da tutte le salse re-interpretative, da Labriola a Lenin, o il Marx-scienziato che analizzò fino ai dettagli molecolari ciò che la storia fino allora esistente gli poteva mostrare (le relazioni tra struttura economica e ordinamento giuridico nella società precapitalistica e feudale, nella grande rivoluzione economica commerciale e industriale, nella creazione dello Stato assolutista, e nel suo consolidamento quale Stato liberale borghese)? Vale la pena qui notare che le evoluzioni successive della storia del mondo, non solo in ordine agli eventi politico-ideologici, ma principalmente in rapporto alle successive trasformazioni dell’economia e, di conseguenza, del diritto, nessuno dei ‘due Marx’ — né il Marx-politico né il Marx-scienziato sociale — le ha viste. Tuttavia, mentre gli idealismi e le interpretazioni ‘volitive’ dell’eredità marxiana sono bruciati come fiori di carta, l’altro cespite ereditario, quello del metodo materialistico/dialettico di indagine e di comprensione analitica di quelle relazioni e di quelle dinamiche, non solo resta scientificamente valido, ma trae dai mutamenti strutturali esplosi dalla fine dell’Ottocento fino all’alba del terzo millennio — e quindi successivi all’esistenza terrena di Marx — robuste conferme empiriche. In secondo luogo, il diritto. Ma quale diritto? Il diritto (concreto) dei formanti (legge e legislatori, sentenze e corti, avvocati e parti) o quello (ideale) dei giuristi “militanti”, che pretendono di introdurre un’action politique ‘marxista’ dentro quei formanti? O quello dei giuristi ‘agnostici’, che non tentano di indirizzare ma si fermano allo studio scientifico dei formanti e delle loro dinamiche, utilizzando il metodo che il Marx-scienziato ha lasciato come eredità? E mentre i formanti si limitano ad esistere, i giuristi ‘marxisti’ sono caratterizzati ideologicamente e teleologicamente, con la conseguenza che la teoria giuridica diventa strumentale a quel fine, perdendo ovviamente in falsificabilità. Il giurista scienziato separa invece ciò che vuole da ciò che studia, e dunque non mira a influenzare i risultati della sua teoria. Con una strana conseguenza, che se si arriva alla conclusione che vi è un “metodo marxista” caratterizzato da scientificità concreta e che esso è applicabile anche in diritto, tale metodo può legittimamente essere utilizzato non solo da uno studioso, diciamo così, ‘di sinistra’, ma anche da un incallito reazionario in politica. Il risultato, se il metodo sarà applicato correttamente, e non piegato ai fini precostituiti, sarà identico. Come si vede, le combinazioni possibili, per l’indagine, sono multiple, e se le seguissi tutte, a parte l’economia di questo breve saggio, mi annoierei a morte, e l’effetto sarebbe ancora più devastante su chi avesse la ventura di leggerlo. Ma vale la pena in questa sede approfondire la curiosa vicenda delle divergenze non parallele tra giurista (marxista) della militanza (con o senza appartenenza) e giurista (marxista) della scienza (con o senza militanza). Avvertendo che il secondo è difficilmente reperibile, ci limiteremo a dare un’occhiata alla resistibile ascesa e all’irresistibile naufragio del primo… (segue)
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