È sempre scientificamente doveroso esplicitare le premesse teoriche da cui si muove perché cambiando il punto di partenza cambia il punto di arrivo: date certe premesse il risultato è già determinato mentre, assumendo premesse diverse, muta inevitabilmente anche la nostra conclusione. A meno di incorrere in errori di calcolo – cioè della logica argomentativa – la scelta di valore dello studioso si consuma in buona parte nella “precomprensione” del fenomeno che si intende analizzare, in quella fase preliminare in cui il problema viene “inquadrato” cioè viene deciso, non solo cosa analizzare, ma in che modo e da che premesse farlo. Questa regola epistemologica è vera in ogni branca della ricerca scientifica ma è particolarmente rilevante per lo studioso del diritto. Le nostre particelle elementari sono “norme” e “rapporti giuridici” e la loro collocazione in sistema genera “status”, “persone”, “enti” e “ordinamenti”. Ciò significa che noi analizziamo oggetti - in buona parte - privi di consistenza materiale, impassibili di analisi strumentale, che per loro natura sfuggono al metodo sperimentale. Quando anche abbiamo un oggetto fisico da analizzare – il “testo” di un provvedimento o una disposizione normativa – l’oggetto del nostro interesse non è l’analisi del fenomeno materiale in sé (grammaticale, sintattica, lessicale o grafologica) ma il passaggio dal mero testo al suo significato, dalla sequenza di parole all’idea (precettiva) che essa esprime. Dobbiamo cioè interpretare quel testo e, per farlo, dobbiamo presupporre ed assumere in premessa un’enorme quantità di informazioni, non solo letterali ma anche politiche, sociali, culturali, tecniche oltre che giuridico-sistematiche. Per interpretare un testo giuridico noi dobbiamo porlo in relazione con l’intero contesto sociale in cui quel testo è stato generato ed è destinato ad avere vigenza. Per passare dal suono codificato nei simboli alfabetici al precetto giuridico dobbiamo presupporre il “mondo”, inteso come realtà sociale di riferimento. Detto ciò è altrettanto evidente che questa enorme quantità di informazioni non può essere esplicitata ogni volta che uno studioso espone la propria teoria su una qualunque questione. Così come un fisico delle particelle dà per scontato il “modello standard”, un giurista presuppone il positivismo normativo; così come un medico non deve argomentare il rifiuto della teoria ippocratica degli umori, un giurista non deve perder tempo a confutare il giusnaturalismo. In realtà la simmetria tra scienza giuridica e scienze naturali finisce presto perché, nonostante l’antichità della nostra disciplina, sono assai poche le nozioni consolidate e univocamente accettate. A volte le teorie che si ritenevano a ragione superate tornano in auge a distanza di decenni o secoli secondo il meccanismo tipico delle mode culturali e non certo dell’evoluzione scientifica. Ma questo discorso porterebbe lontano e ci fermiamo. La soluzione del problema è di esplicitare in modo chiaro e sintetico: l’oggetto dell’analisi, ovvero le domande che il ricercatore pone a se stesso e a cui intende rispondere nonché le premesse teoriche più prossime delle questioni che si sono in tal modo definite. Nel caso che ci riguarda l’oggetto attiene al fenomeno delle “mutazioni della sovranità” del quale intendiamo analizzare due questioni, la prima di natura teorico-descrittiva e la seconda di natura empirico-prescrittiva… (segue)
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