In tempi di acclarata crisi delle forme tradizionali (i.e. novecentesche) della rappresentanza politico-democratica è ancora possibile «ridurre la responsabilità politica esclusivamente al potere di critica e di rimozione dei governanti, oppure proprio l’impiego di questa locuzione sta ad esprimere la particolare complessità della relazione fra governanti e governati in un ordinamento democratico?»; tale questione – già emersa, in Italia, alla fine degli anni ’90 – ha assunto speciale rilevanza ed attualità a causa della complessità strutturale ed istituzionale dei contemporanei ordinamenti statali c.d. “multilivello”: nella frammentazione, sia ideologica sia territoriale, dell’indirizzo politico pare infatti rispecchiarsi – da un lato – la «perdita “fattuale” di centralità del partito» e della sua capacità di sintesi politico-programmatica (nazionale) nonché – d’altro lato – la rinnovata contrapposizione fra interesse “generale” (statale) ed interessi “particolari” (locali). Ed invero se – nel contesto socio-politico italiano, perlomeno nel corso della c.d. “Prima Repubblica” – «i gruppi di pressione hanno […] storicamente trovato […] soprattutto [nei] partiti, un interlocutore privilegiato, capace di ben rappresentare le loro istanze», per cui «ciascun partito si faceva portatore delle istanze di precisi gruppi sociali, e correlativamente ciascun gruppo sociale aveva il proprio partito di riferimento», la successiva crisi dei partiti tradizionali – che ha coinciso con la nascita della c.d. “Seconda Repubblica” – ha invece determinato la elisione del partito quale “intermediario” (necessario) fra lobby ed istituzioni repubblicane; per un verso, inducendo i lobbisti a contattare ed accedere omisso medio al decisore politico e, per altro verso, ponendo con maggiore intensità la questione della regolamentazione legislativa del relativo fenomeno. Volendo allora allargare la prospettiva analitica oltre i confini nazionali, la ricerca di una “causa” omogenea sottesa alla emersione del fenomeno del lobbying ha generato l’idea – sostanzialmente condivisa nella letteratura specialistica statunitense – che «the vast multiplication of interest and organized groups in recent decades is not a peculiarly American phenomenon» e che, appunto, «the cause of this growth lies in the increased complexity of techniques for dealing with environment, in the specialization that these involve, and in associated disturbances of the manifold expectations that guide individual behavior in a complex and interdependent society»; premesso che «complexity of technique […] is inseparable from complexity of social structure», la riferita moltiplicazione dei c.d. “gruppi di interesse” è stata dunque collegata alla natura (tipicamente) “pluralista” dello Stato liberaldemocratico, nonché alla sfida lanciata, alle istituzioni politiche e rappresentative, dalla “civiltà moderna” ed – in specie – dalla complessità delle strutture socio-economiche che la contraddistinguono. La suddetta complessità non è riferita soltanto alle political issue connaturate alla rapida evoluzione della c.d. “società tecnologica” – per la corretta definizione delle quali è richiesta una specifica competenza tecnico-professionale, prodromica alla adozione di correlative e coerenti public policy – ma anche all’ordinamento giuridico-istituzionale tout court ed, in specie, al modello diffusamente applicato nel contesto del sunnominato “moderno Stato di democrazia pluralista”, appunto caratterizzato dalla (più o meno intensa) valorizzazione delle autonomie e della relativa potenziale (o auspicata) sinergia politica: «diversity of interests is a concomitant of specialized activity, and diversity of groups is a means of adjustment»… (segue)
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