L'articolo 11 della Costituzione italiana è stato da sempre al centro di un articolato dibattito dottrinale, che si è sviluppato parallelamente alle sollecitazioni interpretative prevalenti nelle varie fasi storiche. In un frangente iniziale, immediatamente successivo all'entrata in vigore della Costituzione, fu posta la questione dell'effettiva forza giuridica vincolante dell'art. 11, contestata da quanti vi riconoscevano una valenza ed una natura essenzialmente programmatica. In particolare, il ripudio della guerra espresso dall'art. 11 veniva concepito da una parte della dottrina dell'epoca come un obbiettivo cui tendere, piuttosto che come una norma giuridicamente vincolante alla quale attenersi precettivamente nelle questioni internazionali. Superato tale orientamento, espressione di un approccio interpretativo che nel secondo dopoguerra ha interessato, in realtà, numerosi altri articoli del testo costituzionale, il dibattito si è successivamente sviluppato nella contrapposizione tra una lettura sostanzialmente "unitaria" dell'art.11, centrata sul ripudio della guerra quale elemento cardine, e una propensione dottrinaria a considerare separatamente e distintamente sul piano del contenuto, i tre commi dell'articolo stesso. All'indomani della fine della guerra fredda, il coinvolgimento dell'Italia in una molteplice serie di conflitti armati, ha fatto emergere il tema della effettiva "costituzionalità" della partecipazione a tali interventi militari, rispetto al quale si è registrata l'affermazione di una lettura "bilanciata" dell'articolo 11. Una recente dottrina ha infatti evidenziato come un'interpretazione basata essenzialmente sulla clausola del ripudio della guerra, finisca con il minimizzare, di fatto, l'effettiva rilevanza della seconda parte della disposizione, che autorizza l'assunzione di vincoli internazionali implicanti limitazioni di sovranità. In realtà, sia alla volontà di impedire che l'Italia si avventurasse in futuro in guerre di aggressione, sancita dal principio del ripudio della guerra, che all'intento di includere il paese nel circuito delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali di sicurezza collettiva, deve essere riconosciuto il rango di principio fondamentale. In quanto, se ciò non avesse rappresentato l'intenzione dei costituenti, ed al ripudio della guerra si fosse voluto attribuire una valenza assoluta, si sarebbe dovuto più coerentemente optare per l'affermazione del principio di neutralità, così come effettivamente proposto da alcuni membri dell'Assemblea Costituente. L'asserzione più rigorosa del principio del ripudio della guerra trova nella neutralizzazione, infatti, la consacrazione costituzionale più appropriata. Viceversa, se si attribuisce soltanto alla prima parte dell'art. 11 il rango di principio fondamentale inderogabile, la stessa partecipazione italiana a conflitti quali la Guerra del Golfo, l'intervento armato in Serbia, l'operazione militare in Afganistan e l'attacco alla Libia, si connota inevitabilmente come incostituzionale. In realtà, il coinvolgimento militare italiano nella prima Guerra del Golfo, nel conflitto in Afganistan e nel conflitto libico, è avvenuta nell'ambito di un'azione internazionale di sicurezza collettiva, in quanto tali interventi hanno ottenuto l'avallo dell'Onu. Al contrario, non rientra in un tale quadro la guerra in Kosovo, determinatasi nell'ambito di un intervento della NATO a tutela dei diritti umani, sebbene la successiva Risoluzione 1244 del giugno '99, prendendo atto dell'intervento dell'Alleanza Atlantica, abbia stabilito una sorta di mandato internazionale sulla provincia… (segue)
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