Il tema delle leggi a ciclo annuale – che potremmo anche definire “periodiche” – istituite dal legislatore ordinario, non numerose nel nostro ordinamento ma non di rado dotate di grande importanza sistematica, pone nuovamente all’attenzione dell’osservatore il tradizionale problema della possibilità, per il legislatore attuale, di porre vincoli a quello futuro operante sul medesimo livello della gerarchia normativa. Vexata quaestio, potrebbe dirsi, priva di una soluzione univoca e tanto meno definitiva, giacché collocata, come tutti i principali temi del diritto costituzionale e della teoria generale, al limite del rapporto tra il diritto e il fatto, il dover essere e l’essere, il giuridico e il politico. E nondimeno tale da investire una quantità assai consistente di problemi, astratti e concreti, che pure una soluzione, almeno provvisoria e contingente, devono necessariamente trovare. Com’è noto, e per rimanere a tempi (relativamente) recenti, il problema si è posto in relazione alle leggi di incentivazione, la cui inabrogabilità (o immodificabilità) temporanea è sovente disposta dal legislatore soprattutto per garantire presso i potenziali destinatari un sufficiente grado di affidamento, in mancanza del quale gli obiettivi perseguiti dalla scelta legislativa sarebbero probabilmente falliti. Ma ovviamente il paradigma logico di leggi ordinarie che pongano vincoli ad altre leggi (o comunque ad altri atti di pari rango gerarchico) si applica a numerosi altri casi. Si pensi, solo per fare un esempio, alle disposizioni di cui agli articoli 14 e 15 della legge 23 agosto 1988, n.400, inerenti alla disciplina dei decreti legislativi e dei decreti legge: approvata in una fase politica in cui sarebbe stato arduo trovare maggioranze sufficienti a modificare le disposizioni di livello costituzionale (tra le quali tali norme avrebbero più correttamente dovuto trovare la loro collocazione), la legge integra queste ultime ponendo vincoli (di forma e contenuto) rivolti a limitare ulteriormente l’esercizio futuro della potestà normativa primaria del Governo (e indirettamente dello stesso Parlamento). Più in generale, dinanzi al quesito relativo alla legittimità di tali limiti, parte della dottrina ha autorevolmente usato il tradizionale argomento legato alla priorità logica (anziché gerarchica) delle norme sulla produzione rispetto alle norme di produzione, in sé operante anche tra fonti poste sul medesimo livello gerarchico. Il che, tuttavia, non dissolve ogni perplessità: sia in sede teorico-funzionale, giacché un vincolo del legislatore attuale a quello futuro può tradursi, sul più ampio piano relativo al ruolo del sistema delle fonti entro il sottosistema giuridico, in un ostacolo al processo strutturalmente diacronico dell’integrazione politica di cui le fonti stesse (e le norme da esse prodotte) sono l’espressione sul piano tecnico-normativo, sia in sede di diritto positivo, laddove si adombra così una potenziale violazione del dettato dell’art.70 Cost. (che prevede la funzione legislativa come spettante esclusivamente alle Camere – potrebbe dirsi – di tempo in tempo attuali, non limitabile se non in base a vincoli posti dalla Costituzione stessa (segue)
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