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FOCUS - Osservatorio sul diritto elettorale

 Le candidature dei leader di partito alle elezioni europee. Una questione di (sola) correttezza elettorale?

Come noto, lo scorso 8-9 giugno si sono tenute le elezioni per la X Legislatura del Parlamento Europeo, e i cittadini italiani sono stati chiamati ad eleggere i 74 membri del Parlamento Europeo spettanti al nostro Paese. La fase di elaborazione e di presentazione delle liste si è dimostrata, come spesso accade, un momento particolarmente complesso, in cui si sono riproposte alcune prassi problematiche, specialmente riguardo alla fase di composizione delle liste. Tra queste, hanno assunto un particolare rilievo mediatico quelle relative all’indicazione di pseudonimi per taluni candidati (in primis, il caso della Presidente del Consiglio Meloni, “detta Giorgia”) e alla candidatura, spesso come capolista, di numerosi leader di partito. Il presente approfondimento intende svolgere qualche breve considerazione critica con riferimento a quest’ultimo aspetto, che non dovrebbe essere liquidato come un mero esempio di opportunismo politico; al contrario, esso apre a delle riflessioni sul tema, ben più rilevante anche dal punto di vista degli studi giuspubblicistici, della rappresentanza politica e del rispetto del principio democratico.

Si badi, il fenomeno delle candidature “fittizie” dei leader di partito e di membri dell’esecutivo in carica alle elezioni europee non rappresenta una novità nel panorama italiano: alle elezioni del 2019 alcune forze politiche di avevano adottato la medesima strategia, con le candidature di Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini come capilista in tutte le circoscrizioni - ad eccezione di quella del Centro Italia, in cui Forza Italia propose capolista Antonio Tajani, il quale risultò, peraltro, l’unico a svolgere effettivamente il ruolo di parlamentare europeo. Benché privo dell’elemento della novità, come visto, si tratta nondimeno di un fattore che solleva qualche perplessità dal punto di vista della correttezza elettorale, pur non presentando profili di illegittimità dal punto di vista giuridico.

Il fenomeno in parola (che, si noti, non trova alcuna corrispondenza all’estero) consiste nell’inserimento come capolista -in tutte o solo in alcune delle 5 circoscrizioni elettorali- del leader del partito di riferimento, in quanto la figura più riconoscibile politicamente e mediaticamente, sperando in questo modo di assicurarsi una maggiore visibilità in campagna elettorale e quindi ottenere un risultato migliore, in termini di lista, alle elezioni. Tuttavia, i leader di partito ricoprono, di norma, il ruolo di parlamentari nazionali, e quelli appartenenti alla maggioranza sono sovente anche membri dell’esecutivo in carica. Pertanto, qualora eletti anche al Parlamento Europeo, sarebbero tenuti a rinunciare ad uno degli incarichi, in quanto la carica di parlamentare europeo è incompatibile con quella di membro di un parlamento nazionale o di un governo nazionale. La scelta politica dei soggetti interessati, tuttavia, è già chiaramente delineata e spesso viene pacificamente dichiarata mediaticamente, in quanto (quasi) nessuno di essi avrebbe alcuna intenzione di rinunciare alla propria carica attuale in favore di quella di parlamentare europeo.  

 

L’esame delle liste elettorali presentate lo scorso maggio consente di affermare come quello delle candidature multiple dei leader di partito sia un elemento diffuso e trasversale. Il caso più rilevante è stato certamente quello della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, candidata in tutte le circoscrizioni. Analogamente, sono stati candidati in tutte le circoscrizioni Carlo Calenda (Azione), che peraltro aveva svolto un meritorio appello ai partiti per evitare questa prassi sconveniente, e Cateno De Luca (Libertà). Antonio Tajani (Forza Italia), Stefano Bandecchi (Alternativa Popolare) e Matteo Renzi (Stati Uniti d’Europa) risultavano invece candidati in quattro delle cinque circoscrizioni (anche se quest’ultimo non da capolista). La segretaria del PD Elly Schlein è stata, invece, capolista nelle circoscrizioni Italia Centrale e Insulare. Michele Santoro è stato candidato capolista in 2 delle 3 circoscrizioni in cui era presente la sua lista (Pace, Terra, Dignità). Non risultano essere stati candidati, invece, il leader del M5S Giuseppe Conte, quello della Lega, Matteo Salvini, e quelli di Alleanza Verdi e Sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.

Si ribadisce che non si rileva alcun elemento di illegittimità in questo comportamento: ai leader di partito è certamente concesso di candidarsi alle elezioni europee, e in caso di elezione hanno il pieno diritto di non rinunciare alla carica attualmente ricoperta. Al lato più strettamente giuridico si accompagna però, come è fisiologico in ambito elettorale, anche una riflessione relativa all’opportunità politica e all’accountability dei leader di partito. Ed è proprio da questo punto di vista che la loro condotta si presta a considerazioni critiche. Da un lato, la massiccia presenza nella campagna elettorale di candidati che non hanno intenzione di assumere il mandato popolare che formalmente stanno cercando di conquistare al momento del voto svilisce tanto il valore della rappresentanza quanto l’affidamento degli elettori stessi. Dall’altro, risultano svantaggiati i candidati “reali”, che si trovano marginalizzati in campagna elettorale dal rilievo politico e mediatico da leader capilista candidati in più circoscrizioni, i quali, peraltro, non hanno alcuna intenzione di sedere al Parlamento Europeo. Da ultimo, viene sminuito anche il rilievo della carica di parlamentare europeo, inteso implicitamente come una posizione di rilievo secondario rispetto alle posizioni già ricoperte in ambito nazionale -ma questa, almeno in Italia, è una criticità tristemente consolidata. Quanto avvenuto in questa campagna elettorale ha sancito un’ulteriore evoluzione della discutibile prassi in esame, in quanto, oltre ai leader di partito, si è candidato in tutte le circoscrizioni anche il Presidente del Consiglio.

I risultati elettorali hanno certificato l’impatto di questa prassi sul voto dei cittadini: Giorgia Meloni ha ottenuto ben 2,3 milioni di preferenze, Antonio Tajani circa 390 mila ed Elly Schlein oltre 200 mila. Si tratta di preferenze espresse dagli elettori e mai destinate ad essere tradotte in un’effettiva partecipazione dei loro destinatari al Parlamento Europeo.

Si tratta, a parere di chi scrive, di una prassi distorsiva della stessa ragion d’essere della tornata elettorale: le liste di candidati ai quali i cittadini sono chiamati ad affidare il proprio voto, e specialmente il voto di preferenza, non rispecchiano pienamente l’effettiva compagine dei “reali” candidati al Parlamento Europeo.

Sarebbe dunque opportuno provare ad individuare soluzioni di riforma dell’attuale legge per l’elezione dei membri italiani del Parlamento Europeo per porre un argine al fenomeno qui brevemente descritto. Non apparendo praticabile alcuna ipotesi restrittiva dell’elettorato passivo, che limiti la candidatura dei leader di partito alle elezioni europee, né tantomeno un obbligo di rinunciare alla carica ricoperta a livello nazionale in favore di quella a parlamentare europeo per la quale si è concorso, si potrebbe quantomeno studiare la possibilità del divieto di presentare candidature multiple, in modo da non arrestare, ma almeno arginare, la prassi evidenziata.



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