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FOCUS - Fonti del diritto N. 1 - 17/02/2017

 La mancata attuazione delle direttive tra dilemmi giudiziari intorno a disapplicazione, interpretazione conforme e regime di responsabilità dello Stato

La struttura bifasica che caratterizza le direttive implica la predisposizione, a livello europeo, del «risultato da raggiungere» e la riserva di competenza, a livello nazionale, «in merito alla forma e ai mezzi» necessari per il conseguimento del risultato stesso (art. 288 TFUE). La duplice anima, europea e nazionale, quale «tecnica normativa» di tali atti, rappresenta emblematicamente quell’integrazione tra ordinamenti che consente di definire l’attuale contesto giuridico in termini di «diritto sconfinato». La determinazione di un obiettivo europeo e la realizzazione dello stesso da parte degli organi nazionali danno vita infatti ad un atto normativo che, travalicando i confini nazionali,  rappresenta la sintesi di contaminazioni e mediazioni tra sistemi giuridici originariamente concepiti come «monadi indipendenti». In altri termini, le direttive, con la propria genesi europea e attuazione nazionale, contribuiscono a garantire una perfetta interazione tra ordinamenti, realizzata per effetto di un reciproco adattamento e mutuo riconoscimento. Il perseguimento dell’obiettivo europeo può dirsi realizzato, dunque, solo mediante l’attivazione di meccanismi nazionali all’uopo predisposti. La scelta autonoma dei mezzi finalizzati a garantire l’attuazione nazionale delle direttive passa attraverso il rispetto di due principi volti ad assicurare, da un lato, che il recepimento sia corretto, dall’altro, che la discrezionalità interna sia salvaguardata. In particolare, secondo il noto e ormai risalente orientamento della Corte di giustizia, «è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno stato membro che (…) stabilisce le modalità procedurali (…) intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie (…), modalità che non possono, beninteso essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale» e che non devono rendere «in pratica, impossibile l’esercizio dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare». Sono dunque, rispettivamente il criterio di equivalenza e di effettività che regolano quel rapporto circolare tra ordinamenti instaurato in vista della «funzionalizzazione del diritto procedurale interno» per l’attuazione delle direttive. L’attivazione di siffatto meccanismo, nel rispetto dei principi anzidetti, conduce alla genesi di una norma che, formalmente interna, ma con una matrice europea – la propria occasio legis – è «la risultante dell’articolazione fra disposizione comunitaria e normativa nazionale» e dunque «non è né interna, né comunitaria, è una norma interfacciale. È il diritto dell’integrazione», che dà vita ad una struttura giuridica “a rete”, ove ciascuna norma, nata dall’intreccio tra disposizione europea e attuazione nazionale, rappresenta un «nodo» che geneticamente sempre conserva la propria duplice natura. Configurando l’ordinamento integrato come una «combinazione di nodi», ben si comprende il motivo per cui si rifugge ormai dalla ricostruzione dei rapporti tra ordinamento interno e dell’Unione europea in termini di superiorità gerarchica o separazione competenziale. Non è possibile ricorrere a categorie giuridiche già esistenti ma forgiate su istituti nazionali per spiegare e comprendere la natura sui generis dell’ordinamento integrato. Proprio la struttura teleologica delle direttive racchiude in sé, emblematicamente, la chiave per comprendere l’essenza stessa del procedimento di integrazione europea. Esso «non si sviluppa secondo una progressione verticale», né competenziale, ma in una prospettiva fondata sulla legittimazione finalistica. È il perseguimento dello scopo, la realizzazione dell’effetto utile, l’obiettivo prefissato a livello europeo che spinge, guida, orienta gli organi nazionali ad attivare quei meccanismi interni necessari in un rapporto circolare, basato su un nesso di reciproco riconoscimento, qual’è quello tra ordinamento interno ed europeo. Vincolando dunque gli Stati membri in merito al risultato da raggiungere, le direttive contribuiscono a realizzare, in una prospettiva più ampia, l’esigenza che, in nome del principio di leale collaborazione, gli Stati si adoperino per «funzionalizzare» gli strumenti del diritto interno necessari a «garantire l’effettività del diritto comunitario»... (segue) 



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