Il requisito del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, costituisce l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi anni, in tema di responsabilità medica.
Occorre precisare che la giurisprudenza più risalente, sull’assunto che “il medico aveva seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea”, lo riteneva l’unico dominus della strategia terapeutica e il paziente, pertanto, veniva concepito come semplice destinatario di scelte di stretta competenza del sanitario, anche quando riguardavano la qualità della sua vita.
A seguito dell’entrata in vigore del Codice Civile del 1942 e della promulgazione della Carta Costituzionale del 1948 – che, all’art. 32ha qualificato la salute come diritto fondamentale dell’individuo – la giurisprudenza ha configurato il consenso del paziente quale causa di giustificazione dell’atto del medico che, essendo potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo, si configurava come illecito in assenza di consenso.
La necessità del consenso – immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine pubblico e al buon costume –, si evince, in generale, dall’art. 13Cost., il quale, come è noto, afferma l’inviolabilità della libertà personale – nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica – , escludendone ogni restrizione, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Ai sensi dell’art. 32, co. 2, Cost., inoltre, "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
In virtù dell’attività esplicativa e chiarificatrice svolta dal medico, il consenso del paziente deve, pertanto, qualificarsi come informato e la scelta della terapia non deve presentarsi come casuale o indirizzata dal sanitario, ma deve consistere in un atto di vera e propria autodeterminazione.
Il consenso informato si configura, infatti, come espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e come vero e proprio diritto della persona che trova fondamento nei principi espressi dall’art. 2Cost., che ne tutela e ne promuove i diritti fondamentali, e dagli artt. 13 e 32 Cost. (cfr. Corte Cost., 15 dicembre 2008, n. 438).
La necessità del consenso informato, inoltre, è prevista da numerose fonti nazionali e internazionali. Come esempi di legislazione nazionale si citano l’art. 3 l. n. 219/2005 – “Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati” – l’art. 6 l. n. 40/2004 – “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” – nonché l’art. 33 l. n. 833/78 – “Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale” –, il quale esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. (cfr. Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16543; Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748).
Tra le fonti di diritto internazionale, invece, possono richiamarsi l’art. 24 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. n.176/91, l’art. 5 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo e sulla Biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con l. n.145/2001 e, infine, l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000.
Anche il Codice di Deontologia Medica del 2006, all’art. 35, ribadisce che il sanitario non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente (cfr. Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748).
La circostanza per cui il consenso informato trova il suo fondamento direttamente nella Costituzione esprime la sua funzione di sintesi tra due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 438/2008). Il giudice delle leggi, infatti, ha affermato l’esistenza di un autonomo diritto all’autodeterminazione[1]in ordine alla propria salute, distinto dal diritto alla salute ex art. 32 Cost.
Ogni individuo ha il diritto a essere curato e contestualmente ha il diritto a ricevere le opportune informazioni in relazione alla natura ed ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto nonché delle eventuali terapie alternative (cfr. Cass. civ., 2 luglio 2010, n. 15698: “il medico-chirurgo viene meno all’obbligo di informare adeguatamente il paziente ed ottenerne il consenso all’atto medico, ove non gli fornisca, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni, scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità”).
Tali informazioni devono essere il più esaurienti possibili onde garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, dunque, la sua stessa libertà personale in conformità all’art. 32, co. 2 della Carta Costituzionale.
In ordine alle modalità e ai caratteri del consenso, esso deve essere personale – cioè provenire dal paziente – , specifico – ossia riguardare ogni singolo trattamento – , esplicito, reale ed effettivo, attuale – cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento – e consapevole – cioè basato su informazioni dettagliate fornite dal medico. La giurisprudenza prevalente nega, infatti, che assuma rilievo il c.d. consenso presunto, ossia quello mancante ma che si ritiene sarebbe stato prestato se il paziente avesse potuto farlo (cfr. Cass. civ., 27 novembre 2012, n.20984). Non esiste, pertanto, un consenso tacito per facta concludentia.
L’informazione necessaria per il consenso “non può provenire che dal sanitario che deve prestare la sua attività professionale” (cfr. Cass. civ., 23 maggio 2001, n. 7027).
La responsabilità e i doveri del medico, inoltre, non riguardano solo l’attività propria e dell’eventuale equipe che a lui risponde, ma si estendono allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, traducendosi in un ulteriore dovere di informazione nei confronti del paziente (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318).
Con specifico riguardo alla prova dell’intervenuto consenso da parte del paziente, la giurisprudenza ritiene che, il medico viene meno all’obbligo di fornire un valido e esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura cui dovrà sottoporsi, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ritenga di sottoporre al paziente – perché lo sottoscriva – un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (cfr. Cass. civ., 8 ottobre 2008, n. 24791).
La regola generale del consenso informato, tuttavia, subisce due deroghe. La prima ha fonte costituzionale e riguarda il caso dei trattamenti obbligatori (ad esempio le vaccinazioni o i trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori per i malati psichiatrici, così come disciplinati dalla l. n. 180/78, c.d. legge Basaglia). La seconda, invece, concerne l’ipotesi in cui il paziente non sia in condizioni di prestare il proprio consenso. L’impossibilità di prestare consenso, come ad esempio dopo un incidente d’auto e in stato di assenza di coscienza, consente un intervento salvavita, esonerando il medico dal richiedere un consenso, che non può materialmente essere fornito (contrariamente, il rifiuto di prestare consenso da parte di persona cosciente impedisce, anche in caso di pericolo di vita, un intervento medico invasivo).
Lo stato di necessità, collegato in primis alla attualità di un pericolo grave per la vita o l’integrità psico-fisica della persona, si realizza anche in correlazione alla valutazione attuale della necessità di eseguire particolari esami diagnostici e interventi utili e imprescindibili per il paziente. In questo senso si devono ritenere coperti dallo stato di necessità quei trattamenti che, seppure non caratterizzati da un’emergenza clinica, sono destinati a diventare tali nell’immediato futuro del paziente.
La centralità del consenso informato ai fini della liceità del trattamento medico chirurgico e, per converso, la sempre maggiore puntualizzazione degli obblighi informativi gravanti sul medico, hanno portato giurisprudenza e dottrina più recenti a interrogarsi sui profili problematici inerenti sia la natura della responsabilità connessa alla violazione degli obblighi di informativa in campo medico che la ripartizione, in tali casi, dell’onere della prova; nonché ad analizzare le condizioni di sussistenza di detta responsabilità.
Appare opportuno, in tale sede, richiamare l’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite le quali, nel 2011, hanno affermato che “i contratti di protezione che si concludono nel settore sanitario mirano a realizzare interessi che attengono alla sfera della salute in senso ampio e che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionandogli un pregiudizio non patrimoniale”.
Nello specifico, l’inadempimento del sanitario dell’obbligo del consenso informato costituisce violazione del diritto inviolabile all’autodeterminazione.
In particolare, il medico che sottopone il paziente a un trattamento chirurgico in assenza di consenso informato o diverso e ulteriore rispetto a quello per il quale era stato prestato, nel caso in cui l’intervento venga eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis e si sia concluso con esito fausto, sarà tenuto comunque al risarcimento dei danni conseguenti patrimoniali, non patrimoniali e anche da perdita di chance, in solido con la struttura sanitaria ex art. 1218 c.c., qualora il paziente provi, anche mediante presunzioni semplici, che avrebbe rifiutato quel determinato intervento ove fosse stato adeguatamente informato.
La responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all’adempimento dell’obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.
Ai fini della configurabilità di una responsabilità del medico per omessa o inesatta informazione, pertanto, è del tutto indifferente che il trattamento medico sia stato eseguito correttamente o meno, trattandosi, comunque, di un’esecuzione avvenuta in violazione dell’art. 32, co. 2, Cost., dell’art.13 Cost., e dell’art. 33, l. n. 833/78, con contestuale perdita del paziente del diritto inviolabile di accettare o rifiutare il trattamento quale manifestazione della sua libertà.
Ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (cfr. Cass. civ., 27 novembre 2012, n. 20984; Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16543).
L’obbligo di informazione è, quindi, volto a tutelare direttamente l’autodeterminazione e la libertà del paziente; la sua violazione, anche nel caso in cui l’intervento chirurgico abbia avuto un esito fausto, nonostante l’assenza di un danno biologico, determina il risarcimento del danno sia per la privazione o la compromissione della libertà di autodeterminazione del paziente, la quale comporta quasi sempre una conseguenza pregiudizievole nella sfera dell’individuo, sia per l’eventuale ed ulteriore pregiudizio al completo stato di benessere fisico, mentale e sociale.
Per effetto della violazione del dovere di informazione, il paziente, inoltre, subisce una lesione della propria capacità di autodeterminazione relativamente alle facoltà di decidere se e quando sottoporsi all’intervento, nonché, in presenza di alternative diagnostiche o terapeutiche, di rifiutare ovvero differire nel tempo la scelta della terapia da seguire.
L’informazione cui il medico è tenuto, in vista dell’espressione del consenso del paziente, determina, infatti, nel medesimo una sorta di condivisione della speranza del medico che tutto vada bene e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare perché inevitabile.
Trattasi di un aspetto dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente che fa si che il paziente, avendo preventivamente accettato l’esito sgradevole, laddove questo si verifichi, avrà una minore propensione ad incolpare il medico, che non sarà tenuto a risarcire alcun danno in relazione ad un difetto di informazione, salva la configurabilità di una responsabilità per una colpa collegata all’esecuzione di una prestazione successiva per aver, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o mal operato. Laddove, di contro, il paziente non sia stato informato verranno a realizzarsi manifestazioni di turbamento di intensità correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è espressa nel senso che “anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito può sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secundum legem artis ma effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato” (cfr. Cass. civ., 9 febbraio 2010, n. 2847).
Con riguardo, invece, all’elemento costitutivo del nesso di causalità, la Corte ha statuito che “per poter asserire la sussistenza del nesso causale tra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente e lesione della salute per le pure incolpevoli conseguenze negative dell’intervento, deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato giacché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico non avrebbe comunque evitato l’evento”(cfr. Cass. civ., 4 gennaio 2010, n. 13).
La responsabilità civile del medico, pertanto, presenta aspetti peculiari a seconda che la lesione concerna il diritto all’autodeterminazione o il diritto alla salute, stante la diversità sussistente tra i due diritti.
Deve precisarsi, tuttavia, che una responsabilità da lesione del diritto all’integrità psico-fisica potrebbe configurarsi, pur in presenza di un consenso consapevole, laddove la prestazione terapeutica venisse eseguita in violazione della diligenza tecnica richiesta e che, la lesione del diritto all’autodeterminazione, non comporta necessariamente la lesione del bene giuridico salute come accade quando, pur mancando il consenso, l’intervento terapeutico abbia esito positivo.
Nel primo caso il consenso prestato dal paziente è irrilevante, stante il collegamento causale tra la lesione della salute e la condotta colposa del medico nell’esecuzione della prestazione terapeutica inesattamente adempiuta dopo la diagnosi.
Nel secondo caso, invece, la mancanza del consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, pur mancando una lesione della saluteo pur non essendo la stessa collegabile causalmente alla lesione di quel diritto, in tutti i casi in cui vi siano conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato.
Se la responsabilità per omessa informativa del medico si configura indipendentemente dalla valutazione della diligente esecuzione della prestazione medica e, addirittura, indipendentemente dall’esito peggiorativo dell’intervento praticato, deve porsi in risalto la conseguente problematicità del quantificare il risarcimento di tale omissione.
Tuttavia, non vi è ormai dubbio che la violazione del consenso informato costituisca fonte di autonoma pretesa risarcitoria (cfr. Cass. civ., 31 gennaio 2013, n. 2253) e che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo in informazione, è il medico gravato dall’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione – la responsabilità professionale del medico, infatti, ha natura contrattuale (cfr. Cass. civ., 9 febbraio 2010, n. 2847).
(aggiornata al 2014)
Maria Stella Bonomi
[1] Il diritto all’autodeterminazione è stato chiamato in causa nei recenti casi dei pazienti Welby ed Englaro, in relazione ai quali si è posto il problema di stabilire quale sia il limite di tale diritto e se sia consentito a un soggetto, in particolari condizioni, di decidere il momento terminale della propria vita. Secondo il Tribunale di Roma (ordinanza del 16 dicembre 2006, Welby), anche ammettendo che, in linea di principio, nell’ordinamento giuridico italiano possa configurarsi il diritto di un paziente alla consapevole e informata autodeterminazione nella scelta delle terapie alle quali sottoporsi, e in particolare all’interruzione di terapie c.d. “salvavita”, in concreto tale diritto non è tutelabile a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare per quanto concerne i limiti del c.d. “accanimento terapeutico”. In relazione alla vicenda Englaro, i giudici di merito hanno affermato che, nel bilanciamento tra il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla conservazione della propria integrità fisica e, in generale, alla vita, la prevalenza deve essere accordata a quest’ultimo diritto, anche a prescindere dal consenso dell’interessato. Sulla questione è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748), la quale ha affermato che, deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.