Il Servizio sanitario nazionale (SSN) è finalizzato alla tutela del nucleo essenziale ed irriducibile del diritto alla salute, che si traduce nell’obbligo dello Stato di assicurare i Livelli essenziali di assistenza (LEA), ed è ispirato alla coniugazione del principio della libertà dell’utente nella scelta della struttura di fiducia con il principio di programmazione delle prestazioni a carico del servizio pubblico.
Il limite del sistema, così come concepito, è rappresentato dalle effettive disponibilità finanziarie che obbligano il sistema sanitario a dotarsi di una rigida pianificazione finanziaria e che condizionano quantità e livello delle prestazioni sanitarie. Invero, la tutela della salute, quale diritto dell’individuo, postulata dall’art. 1, co. 1, d. lgs. n. 502/1992, deve essere messa in correlazione al principio della economicità nell’impiego delle risorse finanziarie pubbliche destinate ad assicurarla, stabilito dallo stesso art. 1, co. 2, del decreto legislativo sopra citato (cfr. Cons. St., sez. III, 4 luglio 2011, n. 4002).
Le esigenze sempre più pressanti di contenimento e di razionalizzazione della spesa pubblica hanno indotto l’Amministrazione sanitaria a stabilire l’obiettivo della predeterminazione al ribasso, mediante l’utilizzo della leva dei tetti massimi alla spesa, che può essere sostenuta dal sistema sanitario pubblico per l’erogazione di prestazioni sanitarie, con la conseguente fissazione, nei contratti stipulati con i singoli erogatori privati, di limiti alle prestazioni rimborsabili.
I tetti di spesa corrispondono, infatti, al volume massimo di prestazioni remunerabili alle strutture sanitarie, oltre i quali le prestazioni eccedenti non sono remunerate dal Servizio sanitario regionale (SSR) di appartenenza.
Come più volte ricordato nelle decisioni del giudice amministrativo (cfr. Cons. St., sez. III, 1° febbraio 2012, n. 518), il provvedimento con cui l’amministrazione stabilisce i tetti di spesa deve assicurare un adeguato equilibrio tra le diverse articolazioni, pubbliche e private, del sistema di erogazione del servizio sanitario.
Condizione necessaria per l’esercizio consapevole del potere di fissazione dei tetti di spesa è la concreta individuazione delle somme che la regione avrà a disposizione per la spesa sanitaria e, quindi, l’intervento della delibera CIPE volta a ripartire tra le regioni il Fondo sanitario nazionale, componente prioritaria del Fondo sanitario regionale.
La fonte legislativa di riferimento è costituita dal combinato disposto degli artt. 32, co. 8, l. 27 dicembre 1997, n. 449, 12, co. 3, d. lgs. n. 502/1992 e 39, d. lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
“Il Fondo sanitario nazionale […] è ripartito con riferimento al triennio successivo entro il 15 ottobre di ciascun anno, in coerenza con le previsioni del disegno di legge finanziaria per l’anno successivo, dal CIPE, su proposta del Ministro della sanità, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome; […]” (cfr. art. 12, co. 3, d. lgs. n. 502/1992).
“Il CIPE, su proposta del Ministro della sanità (oggi Ministero della salute), d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, delibera annualmente l’assegnazione in favore delle regioni, a titolo di acconto, delle quote del Fondo sanitario nazionale di parte corrente […]. Il CIPE con le predette modalità provvede entro il mese di febbraio dell’anno successivo all’assegnazione definitiva in favore delle regioni delle quote del Fondo sanitario nazionale, parte corrente, ad esse effettivamente spettanti […]” (cfr. art. 39, co. 1, d. lgs. n. 446/1997, da leggersi in combinazione con l’art. 115, d. lgs. n. 112/1998).
Nell’esercizio della propria funzione programmatoria, le regioni individuano preventivamente per ciascuna istituzione pubblica e privata i limiti massimi annuali di spesa sostenibile con il Fondo sanitario e i preventivi annuali delle prestazioni da erogare.
Sulla base dei suddetti atti regionali, i quali forniscono direttive dettagliate sulla loro applicazione, intervengono successivamente gli atti delle ASL, ovvero il piano preventivo annuale (di cui all’art. 2, co. 8, l. n. 549/1995, con cui vengono contrattate con gli erogatori pubblici e privati le quantità presunte e tipologie di prestazioni di assistenza ospedaliera da acquistare), e gli specifici accordi contrattuali con le strutture interessate, di cui all’art. 8-quinquies, d. lgs. n. 502/1992.
Inoltre, la presenza di un sistema di quasi mercato (o concorrenza imperfetta), nel quale l’Azienda sanitaria pubblica è allo stesso tempo prestatore di servizi e soggetto finanziatore delle strutture private in competizione con i suoi presidi ospedalieri, determina delle distorsioni e delle disfunzioni con una disparità di trattamento tra strutture sanitarie pubbliche e private: basti pensare che le strutture pubbliche sono remunerate a piè di lista, ossia ricevono un finanziamento pari alle spese complessivamente sostenute; al contrario, le strutture private, una volta raggiunto il volume massimo delle prestazioni erogabili, non hanno diritto ad alcun rimborso da parte del Servizio sanitario regionale di appartenenza.
Il tema dei tetti di spesa delle prestazioni sanitarie risulta alquanto dibattuto nel panorama giurisprudenziale: ad esso afferiscono diversi aspetti patologici e problematici.
Tra gli aspetti nevralgici e meritevoli di un focus specifico è possibile enucleare: la discrezionalità di cui gode la regione nell’esercitare la potestà programmatoria in materia sanitaria; il carattere discrezionale o vincolato delle delibere del Direttore generale della ASL, in riferimento alle determinazioni in tema di limiti delle spese sanitarie di competenza delle regioni; la ripartizione di compiti disegnata dalla normativa nazionale e regionale che attribuisce alla regioni e alle ASL funzioni differenti (e, alle volte, coincidenti e/o contrastanti); il sistema di regressione tariffaria per le prestazioni sanitarie che eccedono il tetto massimo prefissato; l’efficacia retroattiva dei tetti di spesa che dispiegano i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate dalle strutture sanitarie; la possibilità di computare nel budget le prestazioni rese a favore di soggetti residenti fuori regione; i criteri (tra cui quello della spesa storica degli anni precedenti) per l’assegnazione dei tetti di spesa alle singole strutture sanitarie; l’intensità del sindacato del giudice amministrativo sugli atti di programmazione.
Ma in tema di contenimento e sostenibilità della spesa sanitaria pubblica, e con particolare riferimento alla spesa regionale, un altro tema che merita adeguato approfondimento concerne i Piani di rientro.
L’evolversi del cosiddetto debito sanitario pregresso, il formarsi dei ricorrenti disavanzi annuali, una spesa storica che ha premiato chi spendeva di più, indipendentemente dalla qualità dei servizi resi, il mantenimento di un’assistenza eccessivamente ospedalocentrica, ancorché inefficiente e obsoleta, senza contare le componenti di spesa che maggiormente incidono sul fabbisogno sanitario, come i costi del personale, la spesa farmaceutica, anche non convenzionata e l’acquisto di beni e servizi (cfr. dati raccolti dalla relazione del 22 gennaio 2013 che ha concluso i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali, istituita con deliberazione della Camera dei deputati del 5 novembre 2008), rappresentano infatti i fattori determinanti che hanno condotto la legislazione statale ad elaborare il Piano di rientro (la cui fonte normativa risale all’art. 28, co. 11 e 12, l. n. 448/1998), strumento necessario al risanamento e al contenimento dei disavanzi sanitari regionali.
La tematica dei Piani di rientro presenta molteplici profili di connessione con i principi di: coordinamento della finanza pubblica (art. 117, co. 3, Cost.), leale collaborazione (art. 120, co. 2, Cost.), copertura della spesa dello Stato (art. 81, co. 4, Cost.) ed è strettamente correlata agli articoli 3 e 32 della Costituzione, che sanciscono il diritto alla salute per tutti i cittadini, diritto fondamentale rientrante nelle materie di legislazione concorrente tra i diversi livelli istituzionali (art. 117, co. 3, Cost.).
I Piani di rientro hanno la finalità di ristabilire l’equilibrio economico-finanziario della regione in deficit sanitario e sono parte integrante dell’accordo pattizio stipulato tra il Ministero della salute, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Regione, finalizzato a raggiungere, entro tre anni dalla sottoscrizione, il pareggio di bilancio, attraverso una razionalizzazione stringente dei programmi di spesa, un intervento strutturale sull'offerta complessiva dei servizi sanitari e l'introduzione di sanzioni per le regioni inadempienti.
Il contenuto del Piano deve prevedere interventi volti a riequilibrare il profilo erogativo dei Livelli essenziali di assistenza (LEA), per renderlo conforme a quello desumibile dal Piano sanitario nazionale e dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di fissazione dei medesimi Livelli essenziali di assistenza, sia le misure necessarie all'azzeramento del disavanzo.
La sottoscrizione dell'accordo è, inoltre, condizione necessaria per l’attribuzione alla regione interessata del maggiore finanziamento anche in maniera parziale e graduale, subordinatamente alla verifica della effettiva attuazione del programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del Servizio sanitario regionale (art. 1, co. 180, l. n. 311/2004, così come modificato dall'art. 4, d. l. 14 marzo 2005, n. 35, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione).
Come affermato anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr. Corte cost., 11 aprile 2011, n. 123), “le disposizioni che prevedono accordi fra Stato e regioni per il ripiano dei disavanzi sono finalizzate al contenimento della spesa pubblica sanitaria e, dunque, sono espressive di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica”.
Gli obiettivi di contenimento incidono sui fattori di spesa sfuggiti al controllo delle regioni, quali il superamento dello standard dei posti letto e del tasso di ospedalizzazione, i consumi farmaceutici, la spesa per il personale, il superamento del numero e del valore delle prestazioni acquistate da strutture private (budget), nonché il relativo sistema di remunerazione, la spesa per l’acquisto di beni e servizi ed il controllo dell’appropriatezza prescrittiva dei medici.
La caratteristica principale del Piano di rientro è sicuramente la vincolatività degli interventi concordati con la regione che ha sottoscritto l'accordo, tanto che “le determinazioni in esso previste possono comportare effetti di variazione dei provvedimenti normativi ed amministrativi già adottati dalla medesima regione in materia di programmazione sanitaria” (art. 1, co. 796, lett. b), l. n. 296/2006). Inoltre, la regione è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del Piano di rientro (art. 2, co. 80 e 95, l. n. 191/2009).
E’ prevista anche la possibilità di prorogare (per una durata non superiore al triennio) il Piano di rientro nei casi espressamente previsti dall’art. 11, co. 1, d. l. n. 78/2010, convertito in l. n. 122/2010.
Nella casistica della Corte Costituzionale si segnalano ricorsi del Presidente del Consiglio dei Ministri avverso la legittimità costituzionale di norme regionali che prevedono: il rimborso ai cittadini affetti da patologie oncologiche; l’istituzione di misure di assistenza supplementare o la creazione di uffici o interventi di assistenza aggiuntivi al di fuori delle previsioni del Piano di rientro; spese in controtendenza rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa sanitaria regionale; spese non previste nel bilancio di previsione dell’esercizio di riferimento.
I parametri costituzionali di riferimento, su cui la Consulta fonda le sue massime, sono l’art. 117, co. 3 e l’art. 120, co. 2 della Costituzione.
La compressione dell’autonomia legislativa regionale in materia di tutela della salute costituisce una deroga all’art. 117, co. 3 della Costituzione ed è giustificata dall’esigenza di assicurare l’esatto contemperamento di due principi correlati tra loro: da una parte, la necessità di assicurare uniformemente i LEA su tutto il territorio italiano, dall’altra l’esigenza di garantire l’equilibrio economico-finanziario del sistema sanitario regionale interessato.
“L’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa”, peraltro in un “quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario” (cfr. Corte cost., 18 aprile 2012, n. 91; Id., 14 giugno 2007, n. 193). Pertanto, il legislatore statale può “legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari” (cfr. Corte cost., 29 maggio 2013, n. 104; Id., 28 marzo 2013, n. 51; Id., 18 aprile 2012, n. 91; Id., 12 maggio 2011, n. 163; Id., 18 febbraio 2010, n. 52 ).
In applicazione del principio costituzionale di leale collaborazione, il Governo può sostituirsi agli organi delle Regioni, in particolari casi stabiliti dalla legge, nominando un Commissario ad acta (art. 120, co. 2, Cost.).
Infatti, in caso di riscontro negativo del Piano di rientro approvato dalla regione, ovvero in caso di mancata presentazione dello stesso, il Consiglio dei ministri nomina il Presidente della regione Commissario ad acta per la predisposizione, entro i successivi trenta giorni, del Piano di rientro e per la sua attuazione (art. 2, co. 79, l. n. 191/2009).
“L’operato del Commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica. È, dunque, proprio tale dato – in uno con la constatazione che l’esercizio del potere sostitutivo è, nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.), qual è quello alla salute – a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni amministrative del Commissario […] devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali” (cfr. Corte cost., 26 febbraio 2013, n. 28; Id., 11 marzo 2011, n. 78).
La Corte ha, poi, chiarito come l’interferenza sussista anche in presenza di interventi non previsti nel Piano di rientro che possano aggravare il disavanzo sanitario regionale (cfr. Corte cost., 25 maggio 2012, n. 131).
Da ultimo, si rammenti che l’art. 2, d. lgs. n. 149/2011, ha introdotto la responsabilità politica (e la conseguente rimozione) del Presidente della Giunta regionale in caso di grave dissesto finanziario, con riferimento al disavanzo sanitario, accertato dalla Corte dei Conti in relazione alle condizioni definite nelle tre ipotesi di cui al co. 1 e la loro riconduzione alla diretta responsabilità, con dolo o colpa grave, del Presidente della Giunta regionale.
(aggiornata al 2014)
Valerio Sotte