editoriale di Sandro Staiano
Salvare il regionalismo dalla differenziazione dissolutiva
Il clangore dello scontro sul regionalismo differenziato, reso più aspro dall’approccio ideologizzante e proclive a provocare divisioni, invalso nelle sedi della decisione legislativa e seguito da taluno degli oppositori, offusca un tratto che si potrebbe definire “storico” o “tradizionale” della vicenda che si sta dipanando e che trova ora un punto di snodo nel disegno di legge approvato nel Consiglio dei ministri del 16 marzo. “Storico” e “tradizionale”: da tempo si è venuto sedimentando un modo di legiferare in tema di autonomie territoriali (e, per contaminazione, anche in altri ambiti, fino a toccare la forma di governo) che introduce potenti disfunzioni sistemiche, difficili da correggere (ammesso che poi lo si voglia, per resipiscenza). Questo modo di legiferare è fatto di rovesciamenti dei piani temporali nella produzione normativa, di vistosi scostamenti dal quadro costituzionale, di impiego improprio delle categorie teoriche e dommatiche, di sovrana indifferenza per le conseguenze e per la sostenibilità delle modificazioni introdotte. Andiamo alle origini. Al tempo del tardivo “disgelo” del principio costituzionale di autonomia, dopo il fallimento degli obiettivi dei primi trasferimenti che procedevano dalla legge di delega n. 281 del 1970, si ebbe in Italia la sola legislazione di riforma avente bensì il pregio della coerenza con il disegno del Titolo V della Parte Seconda, ma anche la capacità di attualizzarne il dettato senza stravolgerne i caratteri originari, fondandosi su una robusta base analitica: la legge delega n. 382 del 1975 assumeva a «base globale» quell’elenco di “materie” pensato in un’Italia prevalentemente agricola e lontana dalla successiva “miracolosa” crescita... (segue)
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