
Ci siamo riuniti oggi – come molti altri in Italia e in Europa – per celebrare insieme il “Giorno della Memoria”, in cui vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz. Quei cancelli di fronte ai quali i quattro soldati russi giunti a cavallo a mezzogiorno del 27 gennaio di sessantacinque anni fa non parlavano, non salutavano, non sorridevano: «era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, e ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio», come testimonia il numero 174.517 del lager, Primo Levi, all’inizio de La tregua. Quei cancelli – racconta un altro soldato russo, allora diciannovenne, arrivato anche lui fra i primi liberatori – dietro ai quali «io ho incontrato solo spettri… La verità è che nessuno di noi soldati si era reso conto di aver varcato un confine da cui non si rientra… Pensai a qualche migliaio di morti, non alla fine dell’umanità». Quei cancelli sui quali v’era una scritta («Il lavoro rende liberi») che, per il luogo, l’occasione e il modo in cui veniva profanata, suonava come una bestemmia... (segue)
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