Sul governo delle c.d. “aree vaste” e sulle Città metropolitane esiste ormai molta documentazione, anche comparata e comprensibilmente del più vario genere, per la natura intrinsecamente interdisciplinare del tema e quindi degli specialisti coinvolti: geografi, economisti, sociologi, urbanistici, giuristi, ecc.. E’ quindi quasi impossibile prendere visione ed avere piena contezza di tutto il materiale disponibile, dal quale comunque emerge, oltre a una grande diversità di approccio da parte dei diversi studiosi, anche una pericolosa vaghezza concettuale di fondo non tanto sulle stesse idee di “metropoli” e “area metropolitana”, quanto di “Città metropolitana”. Infatti, probabilmente si può convenire sul fatto che la metropoli sia una città con altissimo numero di abitanti, tendenzialmente concentrati territorialmente, e anche sul fatto che l’area metropolitana sia costituita da grandi città e piccoli centri urbani, frammisti a zone rurali, fra loro contigui e integrati, che tendenzialmente insistono su una superficie territoriale più estesa, non mancando persino aree metropolitane “interstatuali”; per es.: Vienna-Bratislava (Austria-Repubblica slovacca) e Copenaghen-Malmö (Danimarca-Svezia). Il carattere diffuso e mondiale del fenomeno dell’urbanizzazione è fin troppo evidente e ben studiato: com’è noto, nel globo, su circa 7 miliardi di persone, ben 3 miliardi vivono in centri urbani. Se, fino a un secolo fa, solo 16 città nel mondo superavano il milione di abitanti, oggi le metropoli con più di un milione di abitanti sono più di 400. In particolare, nei 28 Paesi dell’Unione Europea l’80 % circa della popolazione ormai risiede in agglomerati o aree urbane. Né può sottovalutarsi la rilevanza squisitamente “economica” degli enti locali più in generale, intesi complessivamente su tre livelli (Comuni, Province e Regioni) in Europa e segnatamente in Italia: la spesa che transita a livello locale nell’UE è nell’ordine del 12 % del PIL (16 % in Italia) e gli investimenti locali sono il 60 % (75 % in Italia) dell’intero settore pubblico. Purtroppo – molto più che in altri ordinamenti (si pensi alle Métropoles francesi, alle Áreas o Entidades Metropolitanas spagnole,alle Metropolitan counties eMetropolitan boroughs inglesi) – in Italia resta ancora aperta e irrisolta la questione della determinazione dei presupposti e/o requisiti “fattuali” che giustificano e rendono possibile il nuovo ente “giuridico” italiano della Città metropolitana, come subito si vedrà (cfr. il § 2). Alle difficoltà definitorie segnalate, si aggiunge nel nostro caso il fatto che – al di là di quanto piuttosto laconicamente viene disposto nella Costituzione, la quale attribuisce a tali enti generiche potestà statutarie, regolamentari, amministrative e finanziarie (artt. 114, c. 1; 117, c. 2, lett. p; 118, cc. 1, 2 e 4; 119, cc. 1, 2, 4, 5 e 6; e 120, c. 2) e, piuttosto caoticamente, nella legge c.d. Delrio n. 56/2014 – buona parte del futuro sviluppo concreto del nuovo ente Città metropolitana dipenda da due fattori futuri assolutamente decisivi e, al momento, incerti: a) l’esito del disegno di legge di riforma costituzionale (n. 2913, 8 agosto 2014) che, fra le altre cose (modifica del Senato, abolizione del Cnel, ecc.), abolisce anche le Province e b) l’esito dei ricorsi alla Corte costituzionale promossi contro la legge c.d. Delrio da quattro Regioni: Lombardia (ricorso n. 39/2014), Veneto (ricorso n. 42/2014), Campania (ricorso n. 43/2014) e Puglia (ricorso n. 44/2014). Anche per questi motivi, tendenzialmente non amo commentare riforme il cui esito è ancora incerto per le modifiche del disegno di legge costituzionale in corso giorno per giorno o, come nel caso delle città metropolitane, la cui piena realizzazione e la cui concreta attuazione è ancora da verificare, anche per importanti controversie – non da ultimo giudiziarie – pendenti. I rischi di parlare a vuoto, con esercizi sterili e disquisizioni teoriche destinati ad essere vanificati di senso dall’evolversi concreto della disciplina giuridica e dalla prassi sono molto alti. Ciò detto, è anche vero che non può escludersi che il Parlamento e la Corte costituzionale possano trarre un qualche, pur minimo, vantaggio dalle riflessioni offerte dalla dottrina “in corso d’opera”, cosa che però, nel caso di specie, è ancora tutta da dimostrare.
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28/11/2018
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