A partire dall’unificazione – o meglio, dal secondo decennio del secolo scorso (quando si fece ampio ricorso agli enti “parastatali”) e, soprattutto, durante il periodo fascista – si è assistito nel nostro ordinamento ad un processo di moltiplicazione e di diversificazione degli enti pubblici che ha fatto perdere loro i tratti comuni. Il legislatore ha disciplinato, infatti, tante specie diverse di modelli organizzativi di ente pubblico. Il risultato è che “il quadro complessivo dell’amministrazione pubblica, come oggi si presenta, è assai diverso dal quadro originario: alla semplicità è seguita la complicazione; alla uniformità la differenziazione dei modelli; all’accentramento il decentramento e l’affermazione delle autonomie”. Non va dimenticato, peraltro, che il problema della proliferazione degli enti pubblici non è altro che una conseguenza di un fenomeno più generale, vale a dire quello delle dimensioni della sfera pubblica: all’interno di questo fenomeno l’articolazione o meno in enti è un problema meramente organizzativo. Il processo di accrescimento disordinato delle figure soggettive pubbliche – che ha portato ad una loro estrema detipicizzazione – si è arrestato soltanto alla fine del Novecento, allorché è prevalsa una tendenza opposta, volta alla “privatizzazione” degli enti pubblici attraverso la loro trasformazione in società per azioni e fondazioni. Processo tuttavia non pienamente realizzato, atteso che in diversi casi la privatizzazione è rimasta ferma alla fase “fredda”, senza arrivare alla fase “calda”, essendo le azioni detenute (non da privati, ma prevalentemente o totalmente) da soggetti pubblici. Senza dire poi che il legislatore ha attribuito ad alcune società di particolare interesse pubblico svariati poteri particolari in deroga rispetto alla disciplina ordinaria, come le azioni golden power (che hanno preso il posto delle golden share), ovvero ha fatto ricorso alla forma della società per azioni per lo svolgimento in via ordinaria di attività di interesse pubblico, come nel caso della Rai, i cui organi sono disciplinati in modo ben diverso da quanto previsto dal codice civile per una società per azioni. Vi sono infatti degli enti organizzati in forma privatistica che presentano una chiara natura pubblicistica ovvero sono sottoposti a un regime derogatorio per finalità pubblicistiche (come, ad esempio, l’Agecontrol, società con personalità di diritto pubblico, prevista dall’art. 1 del regolamento 17 luglio 1984, n. 2262/84 della Comunità europea e dall’art. 18, l. 22 dicembre 1984, n. 887), che vengono ricondotti dalla dottrina nella ibrida nozione degli enti pubblici in forma privatistica. Si è così dato vita a formule organizzative che si trovano sempre più sulla linea di confine tra “pubblico” e “privato”. Anche i numerosi tentativi di razionalizzazione degli enti pubblici e di eliminazione degli enti c.d. “inutili”, non sono stati coronati da successo, considerato che a fronte di una modesta diminuzione del loro numero (assolutamente non nella misura necessaria) l’assetto complessivo degli enti pubblici continua ad essere incoerente e ricco di differenze. A fronte di un quadro che è divenuto via via sempre più complesso, la dottrina si è affaticata nella difficile opera di classificazione degli enti pubblici. Nel presente scritto, tuttavia, non si indugerà sulle varie tipologie di enti pubblici o sulle numerose e variegate classificazioni che sono state proposte in letteratura per queste figure soggettive pubbliche. E ciò perché l’intento del presente lavoro è quello di guardare agli enti pubblici in una prospettiva attuale. E, nell’attuale fase storica, la dottrina dubita (rectius, è tornata a dubitare) della stessa rilevanza della nozione di ente pubblico, di talché il cuore del presente contributo sarà quello di capire se tale categoria è ancora necessaria o meno... (segue)
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