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La critica più comune che si è soliti fare alla riforma costituzionale - oggetto del referendum (forse) di ottobre - riguarda il metodo con cui è stata approvata. Si dice - da un lato - che troppo ristretto è stato il consenso al momento della seconda lettura in Assemblea - dall’altro - che la riforma non era oggetto del programma elettorale di nessuna della forze politiche dell’ultima tornata elettorale e, infine, nella sua critica più radicale, che un governo , come quello in carica, non investito direttamente dal voto popolare non avrebbe dovuto né potuto presentare una così ampia alterazione del testo della costituzione vigente. La critica sul metodo mi sembra anche la più incomprensibile. Si dimentica che - proprio a stare alla costituzione attuale - una situazione come quella appena descritta di una mancanza di una maggioranza forte, cioè capace di riscuotere un ampio consenso nel paese, che, purtuttavia, ritiene utile una modifica costituzionale, è esplicitamente prevista in Costituzione. Se, infatti, non si raggiunge la maggioranza dei due terzi dei parlamentari, una maggioranza rappresentativa cioè di una larghissima fetta dell’elettorato, è possibile, da parte della minoranza, il richiamo al corpo elettorale che direttamente agisce, allora, da giudice supremo. Ma se questa è la costituzione e se è questo quello che è esattamente avvenuto non si comprende davvero quale sia allora il problema. D’altro canto, che il rapporto tra corpo elettorale e Parlamento nei procedimenti di riforma costituzionale sia sempre dialettico è un dato di fatto. La riforma del titolo V venne approvata, nell’ultimo passaggio parlamentare, per soli tre voti ma venne poi approvata da corpo elettorale a larga maggioranza. Al contrario, la riforma costituzionale approvata precedentemente a quella attuale ebbe una ben più ampia maggioranza in Parlamento ma venne poi sconfitta dal voto popolare in maniera inversamente proporzionale a quella maggioranza. Si badi bene che la prima maggioranza parlamentare - seppur così risicata - si era completamente dissolta al momento del voto popolare, mentre la seconda che - nello stesso anno del referendum - rimase indietro nelle elezioni politiche dello 0.7 per cento, vide dopo pochi mesi affondare, appunto, il suo progetto di riforma con un margine evidentissimo di oltre venti punti. E allora resta il problema di cercare di capire quale possa essere il problema. Il costituente, di cui a gran voce si proclama il rispetto, ha previsto che la parola ultima spetti sempre al corpo elettorale, in quanto, per la maggioranza occorrente per evitare che questo si pronunzi, la possibilità che questo non avvenga appare una vera eccezione. Tutto questo, naturalmente, all’oggi nella crisi dei partiti politici e del sistema della rappresentanza politica in cui è, davvero, difficile ipotizzare una omogeneità di valori che consenta al Parlamento di esprimersi sempre in presunta armonia con il Paese... (segue)
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