L'esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 induce a riprendere la riflessione sul sistema autonomistico in concreto attuato nel nostro Paese, che è rimasto quello introdotto dalla revisione del Titolo V, con tutte le incertezze sulla sua concreta definibilità rispetto ai modelli dottrinari (duale, competitivo, cooperativo, di esecuzione, integrato, ecc.). E' indubbio che la revisione bocciata dal corpo elettorale contenesse elementi volti ad attuare un grado maggiore di collaborazione/integrazione dell'autonomia politica regionale con quella statale, a fronte di un modello non chiaramente definibile, ma pur sempre improntato ad un certo grado di competitività e quindi in qualche modo volto ad attuare un modello di regionalismo "forte", tanto che uno degli sbocchi più auspicati dell'ultima revisione doveva essere proprio quello di ridurre drasticamente il contenzioso tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale. La soluzione seguita dal legislatore costituente era stata quella di aumentare in maniera sensibile la potestà legislativa esclusiva statale. Accanto ad alcune aggiunte prelevate dal catalogo di potestà concorrente e opportunamente ricomprese nell'elenco di materie di potestà esclusiva statale, erano tuttavia riscontrabili diverse ipotesi di intreccio tra legislazione statale e regionale, temperato dal conferimento alla potestà esclusiva statale dell'adozione di "disposizioni generali e comuni". Ciononostante, non poteva ritenersi pienamente superata la "vischiosità" delle aree di competenza reciproca, con inevitabili ricadute negative in ordine alla concreta realizzazione dei fini centripeti perseguiti dalla riforma. Come effetto ulteriore poteva ipotizzatarsi anche un trend comportante una "amministrativizzazione" del nostro modello regionale, che sarebbe stato privato di quella autonomia politica di tipo oppositivo e dialettico, caratterizzante le autonomie territoriali presenti nei sistemi federali/duali, nei quali all'autonomia legislativa statale si contrappone (perché posta sul medesimo piano costituzionale) appunto quella degli enti substatali. Ma al di là della bocciatura della revisione, rimane oggi, come dato obiettivo da analizzare, in quanto caratterizzante la torsione del nostro modello regionale, quello della progressiva limitazione, a Costituzione invariata, dell'autonomia politica delle Regioni attraverso la sottoposizione di queste ultime a sempre più penetranti controlli finanziari e di regolarità contabile. E' indubbio che fra gli effetti più tangibili del riconoscimento dell'autonomia politico-legislativa agli enti sub-statali vada ricompreso quello di una maggiore autonomia di spesa, cui si ricollega in astratto un sistema finanziario bilivello (statale/regionale) tale da consentire il finanziamento delle funzioni attribuite ed in concreto esercitate attraverso "risorse proprie" (cfr. art. 119 Cost.). Sta di fatto che, pur non potendo ritenersi voluto un simile sistema finanziario dal legislatore costituente del 2001 (che giammai intese attribuire alle Regioni una propria autonomia impositiva), venne innescato un processo riformatore che, ancorché segnato da numerosi stop and go, sfociò nella ben nota legge-delega n. 42/09, istitutiva del c.d. "federalismo fiscale", con cui venivano quanto meno configurati tre separati sistemi tributari (statale, regionale e locale), tendenti ad assicurare a ciascun livello di governo l'acquisizione delle risorse necessarie per l'erogazione dei servizi pubblici. Un dato è certo: subito dopo la revisione del Titolo V si è assistito ad una impennata delle spese delle Regioni: nel decennio 2000-2010, a fronte di un aumento dell'inflazione pari al 23,9%, la crescita della spesa è stata del 74,6% e le uscite complessive delle Regioni hanno superato i 208,4 miliardi di euro. Recentemente, però, sempre sulla base di rilevazioni compiute con metodo analitico, si è verificata una inversione di tendenza, ancorché appena percepibile: pur essendo nel periodo 2012-2014 le uscite complessive delle amministrazioni pubbliche cresciute di poco più di 6 miliardi (passando dal 50,8% al 51,1% in termini di incidenza del PIL), la spesa delle Regioni si è ridotta di quasi 1,4 miliardi, passando dal 19,6% al 19,5% in rapporto al PIL. In tale contesto assume particolare rilevanza un ulteriore dato sistemico: una delle conseguenze principali dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea è la rigorosa osservanza dei vincoli di finanza pubblica e segnatamente dell'equilibrio di bilancio, del contenimento della spesa pubblica e del debito pubblico, del rispetto del patto di stabilità interna, ossia di quelli che rappresentano i capisaldi della cosiddetta sana gestione finanziaria, vincolanti nei confronti di tutti gli enti territoriali... (segue)
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