Il sistema britannico di valutazione delle politiche pubbliche si articola in una pluralità di organi, procedure, tecniche d’indagine e strumenti operativi, i quali, nel loro assetto e funzionamento complessivo, contribuiscono a determinare un benchmark internazionalmente riconosciuto di qualità della regolazione. Scopo del presente lavoro non è per altro quello di presentare analiticamente la struttura e il funzionamento dei diversi organismi implicati in tale attività, tematica sulla quale si è ormai sedimentata un’ampia letteratura; si intende invece esaminare quale impatto eserciti la valutazione parlamentare delle politiche pubbliche sul sistema istituzionale del Regno Unito, quali dinamiche essa instauri nei rapporti tra l’esecutivo e il Parlamento, e quali fattori rendano la sua applicazione più o meno efficace come strumento di ridefinizione degli equilibri tra poteri dello Stato. In ultima analisi, si tratta di verificare se e in quali termini l’attività valutativa, per come concretamente esercitata nell’ordinamento britannico, contribuisca a determinare la conformazione della costituzione materiale del Paese, e più specificamente l’evoluzione de facto della sua forma di governo. Questo aspetto potrà risultare di particolare interesse anche in ottica comparatistica: in Italia si è infatti di recente assistito al tentativo di attivare de iure – ossia tramite riscrittura, fra gli altri, dell’art. 55 della Costituzione – la funzione parlamentare di valutazione delle politiche pubbliche, in particolare attribuendo tale compito al riformando Senato della Repubblica. Com’è noto, il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha impedito che tale previsione normativa entrasse in vigore, ma ai fini dello svolgimento effettivo dell’attività valutativa si trattava pur sempre di disposizione non necessaria e non sufficiente: non sufficiente, poiché di per sé essa non era accompagnata da alcuna garanzia quanto alla sua concreta attuazione; non necessaria, in quanto nulla osta a che il Parlamento eserciti anche a costituzione invariata la suddetta funzione. Si tratta pertanto di capire se ciò che in Italia non è riuscito de iure, possa ugualmente svilupparsi de facto. A ben vedere, ciò potrebbe costituire quasi una sorta di “destino obbligato” per gran parte delle democrazie occidentali contemporanee, entro le quali si assiste da tempo ad una sostanziale sostituzione dei governi ai parlamenti nell’esercizio dell’attività legislativa: questo elemento, ingenerando una naturale evoluzione nei rapporti interistituzionali, potrebbe stimolare anche le nostre Camere verso un più incisivo espletamento delle funzioni di valutazione e controllo, al fine di riappropriarsi per tale via della propria legittimazione politica. Al tempo stesso, ciò potrebbe favorire l’efficientamento della produzione normativa e lo sviluppo di pratiche virtuose sul piano dell’allocazione delle risorse. In chiave comparatistica risulta allora particolarmente interessante studiare l’esperienza del Regno Unito, la quale, consolidatasi in oltre 150 anni di storia, fornisce un’enorme mole di dati circa le dinamiche che un certo utilizzo della valutazione è in grado di instaurare all’interno del sistema politico-giuridico di un Paese. In questa prospettiva, si pone innanzitutto un problema di ordine metodologico: quali criteri adottare per misurare l’impatto della valutazione sul processo di policy making? Da una parte, i parametri applicati devono poter fornire risultati significativi, ossia non meramente ipotetici, generici o indeterminati; dall’altra, non devono assecondare modalità di calcolo potenzialmente distorsive, dove la rappresentatività delle stime risulti – anche solo indirettamente – inficiata da selection bias. Lo specifico approccio metodologico con il quale si conduce l’indagine rischia infatti di sovra o sottodimensionare l’effettiva influenza dell’organo valutatore: anche in una concezione idealmente circolare del processo decisionale, dove l’attività valutativa accompagni la progettazione politica lungo tutto il suo iter di svolgimento, non è invero possibile inquadrare le determinazioni dei policy makers entro rigidi e meccanicistici nessi eziologici, perché molteplici – e non sempre linearmente individuabili – appaiono essere le motivazioni che spingono il decisore a intervenire... (segue)
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