Il tema della nomofilachia, sempre presente nella cultura giuridica, assume oggi una rilevanza centrale anche nel dibattito politico-istituzionale e investe problematiche di ordine generale che spaziano dal diritto costituzionale al diritto processuale, sì da renderlo un tema di teoria generale. Al tempo stesso, la presenza nel dibattito politico-istituzionale si spiega con la crescente esigenza di certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni, esigenza che, posta ai giuristi e dai giuristi, in realtà è avvertita nel mondo dell’economia, della politica, dell’imprenditoria, dei comuni cittadini che abbiano rapporti controversi con altri privati o con la pubblica amministrazione. Proprio l’intreccio della nomofilachia con altri temi –di cui diremo tra poco- giustifica anche l’alternarsi di quelle che sono state definite le “stagioni della nomofilachia”, significativamente influenzate dal “clima” determinato dal quadro di insieme in cui il tema si pone. E così, per scendere al concreto e avuto riguardo eminente alla stagione attuale, il tema della “uniforme applicazione del diritto” –che costituisce il fine ultimo cui tende la nomofilachia, e uso il termine “applicazione” e non “interpretazione”, perché la seconda è funzionale alla prima- e cioè il problema della nomofilachia, investe i temi del principio di legalità, del rapporto tra legge e giudice e, in definitiva, di quello che è stato definito il “diritto giurisprudenziale”. Detta in altri termini, la rilevanza centrale assunta dalla nomofilachia nell’applicazione del diritto si spiega con l’esigenza di certezza del diritto, che informa i comportamenti umani, e di prevedibilità della soluzione delle controversie che insorgano nell’applicazione del diritto. In quest’ambito, “diritto giurisprudenziale” e legislazione positiva scontano il comune problema della incertezza delle regole, dovuta alle difficoltà che incontra la legge a porre regole chiare e definite e alla intrinseca imprevedibilità –in certa misura- delle decisioni dei giudici, che costituiscono un potere diffuso e che giudicano su casi inevitabilmente influenzati dalla singola situazione di fatto. Difficoltà del legislatore: oggi la difficoltà di avere leggi chiare, al di là della minore o maggiore competenza tecnica dei “fabbricanti di leggi”, deriva dalla oggettiva difficoltà di regolare, e quindi di governare, una società complessa, disomogenea al suo interno, in cui la mediazione del conflitto tende spesso a spostarsi dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione, sicché la regola esce poco chiara o poco definita (nel senso che attua una scelta indefinita o incompleta) proprio perché non si è riusciti a comporre il conflitto a livello politico. Ma il momento dell’applicazione del diritto ad opera dei giudici – spesso anche prima, a livello di amministrazione- è inevitabilmente frammentato, influenzato dal caso concreto e dalla formazione del giudice, anzi dei tanti giudici che affrontano casi simili tra loro, in tempi diversi e situazioni di fatto dissimili. Ma se la traslatio, lo “scivolamento”, dalla legge al giudice della scelta “politica” costituisce una patologia del sistema, bisogna riconoscere che vi sono anche fattori di tipo oggettivo, di sistema, che tendono a caricare i giudici di una responsabilità propria nell’applicazione del diritto. Parlavo del principio di legalità. Il primato della legge in senso illuministico e il giudice bocca della legge costituiscono quasi una ipotesi di scuola che non regge più nemmeno in quei Paesi, come il Regno unito, che sono riusciti nel tempo a coniugare primazia del Parlamento e vincolatività del precedente giudiziario. Oggi il principio di legalità sostanziale, che, per esigenze di certezza e primazia della legge, aveva preso il posto della legalità formale (per il cui rispetto bastava l’attribuzione per legge della potestà pubblica) va cedendo il posto a un principio di legalità procedurale, in cui il metodo di formazione della decisione amministrativa prevale sul suo contenuto, in quanto la scelta amministrativa “si fa” sulla base di un modello normativo “aperto” e indefinito, nel rispetto del principio del contraddittorio e nella logica della comparazione degli interessi. Correlativamente, il giudice –soprattutto quello amministrativo, ma non solo- è chiamato fisiologicamente ad adottare tecniche di tutela fondate su princìpi e clausole generali, quando non è chiamato addirittura al “riconoscimento”, cioè alla individuazione di situazioni soggettive tutelate (si pensi all’illecito aquiliano o all’estensione dell’area della “legittimazione”, sul piano sostanziale degli interessi prima ancora della loro titolarità, da parte del giudice amministrativo). Il secondo fattore è costituito dall’inserimento delle tutele in un sistema multilivello di fonti del diritto, a livello nazionale ed europeo (e talvolta internazionale). Di questo sistema, accanto alle fonti tradizionali (ma assai diversificate), va prendendo piede sempre più il diritto giurisprudenziale, cioè le sentenze dei giudici, nazionali e soprattutto europei... (segue)
Diritti, poteri, giudici – Lectio tenuta in occasione della presentazione degli Scritti in memoria di Beniamino Caravita di Toritto (La Sapienza, Roma 19 aprile 2024)
Filippo Patroni Griffi (24/04/2024)