Negli ultimi anni, l’evoluzione del diritto ha portato ad un processo di dequotazione del principio di legalità in favore della logica di risultato. Il rigore delle forme tipiche, espressione del potere pubblico sta, lentamente, lasciando spazio alla correttezza sostanziale degli atti amministrativi. La legalità, intesa come espressione delle forme tipiche, è protezione e tutela del cittadino e la formalità dell’atto postula che nello stesso debba essere espressa una valida motivazione. Il diritto si estrinseca nel mondo esteriore attraverso la forma giuridica e la motivazione trasforma l’arbitro del potere in garanzia. Tuttavia, anche se l’evoluzione giuridica porta ad allontanarsi dal modello dell’amministrazione “legale”, la funzione di valore alla quale assolve la forma non può essere giammai sacrificata, neppure in un ordinamento improntato alla cultura del risultato, quale quello attuale. L’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi, oltre a realizzare la conoscibilità e la trasparenza dell’azione amministrativa, permette al giudice di controllare la legittimità della decisione e di fornire all’interessato le indicazioni sufficienti per stabilire se la stessa sia fondata o inficiata da un vizio. In via di principio, dunque, ne deriva che la motivazione deve essere comunicata al soggetto interessato contestualmente all’adozione del provvedimento amministrativo e che la mancanza di motivazione non può essere sanata attraverso la conoscenza dei motivi della decisione nel corso di un procedimento giurisdizionale. Tale principio generale, espressione senz’altro dei principi costituzionali nazionali in materia di pubblica amministrazione, è proprio anche della normativa europea, richiamata anche dall’art.1 della L. n.241/90. La stessa Corte di giustizia europea, peraltro, ha più volte stabilito nelle sue sentenze che sussiste l’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo e il divieto di integrazione della stessa in sede processuale. Ciò posto, sussisterebbe una palese contraddizione tra l’art. 21 octies della L.241/90, che consentirebbe l’integrazione della motivazione in sede processuale, e l’art. 1 della stessa legge, che invece impone la contestualità della motivazione all’adozione del provvedimento amministrativo. L’apparente contraddizione di queste due disposizioni, che sviluppano principi opposti, comporterebbe una totale rivalsa della sostanza procedimentale sulla forma provvedimentale. Tuttavia, com’è noto, non tutte le violazioni sulla forma o sulle norme sul procedimento amministrativo meritano una stessa reazione da parte dell’ordinamento giuridico. L’ordinamento, infatti, sanziona con l’invalidità un atto allorquando vi sia un interesse da tutelare, viceversa introduce l’istituto della irregolarità. La riflessione che segue mira a verificare se la crisi della legalità ed il depotenziamento della forma possano determinare l’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione e se sono ammissibili in giudizio nuove ragioni rispetto a quelle enucleate nella motivazione dell’impugnato provvedimento, anche alla luce del dettato comunitario, atteso l’intenso ed attuale divario nella giurisprudenza tra concezioni garantiste e concezioni riduzioniste della motivazione del provvedimento amministrativo... (segue)
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