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NUMERO 17 - 12/09/2018

 Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale

Ringrazio innanzitutto dell'invito, che mi consente di affacciarmi ad una platea che non sono abituato incontrare: il che già mi fa molto piacere. Il tema che mi è stato assegnato è "Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale". Ho molto riflettuto con la conseguenza che si sono moltiplicati più i dubbi che le certezze in merito alla tesi implicita nel titolo, che ha una non celata valenza assertiva. Non sono molto sicuro che ci sia un diritto fondamentale alla sicurezza giuridica, e questo è il mio primo dubbio. Sarei quasi tentato di dire di no, che non c'è nessun diritto fondamentale alla sicurezza, per il semplice fatto che la sicurezza e la certezza del diritto sono, almeno nelle nostre coordinate storico-culturali, sinonimo di diritto - o, per dirla con Bobbio (La certezza del diritto è un mito?, in Riv. int. fil. dir., 1951, 150) sono “un elemento intrinseco del diritto”. Il diritto o è certo e prevedibile o non è. Nello “Stato del diritto” – che riassume i tratti storici e più significativi della nostra filosofia dello Stato - essi sono i pilastri su cui si fonda l’intero sistema: dalle prime teorizzazioni di inizio ‘800 fino alle riflessioni più recenti, quando si parla di Stato di diritto si dice "è il mondo in cui la legge è certa e prevedibile, l'amministrazione è sottoposta a giurisdizione e i giudici sono indipendenti"; ma la prima qualità è la certezza del diritto, il resto ne è quasi una conseguenza (vedi l’ormai classico J. Finnis, Natural law and Natural Rights, Oxford - New York 1980, 272). Per questo chiedere se esiste un diritto fondamentale alla certezza del diritto è una domanda singolare, che però ha senso perché ci dà un'idea piuttosto chiara della situazione strana in cui versiamo oggi. “Certezza” e “prevedibilità” sono miti fondativi della nostra immagine del diritto. Sono “miti”, hanno ragione Kelsen, Tarello e tutti gli altri che hanno persino ironizzato su di essi. Ma dipende da che cosa stiamo considerando. Perché, se noi collochiamo la categoria della certezza del diritto sul piano della teoria generale è evidente che essa evapora in un mito; ma se ci poniamo al livello della pratica del giurista, la certezza è un presupposto di pensabilità del nostro mestiere: più kantiano di così non potrei essere! Vediamo un po’ meglio questa apparente contraddizione. Il mito – la certezza – si fonda su un’immagine onirica dell’ordinamento giuridico, la quale evoca, più che un’esperienza storica, un ricordo proustiano, il profumo di una madeleine che però forse non è mai esistita come l’immaginiamo. Siamo spesso vittime di questi dolci inganni, che ci fanno rimpiangere – inconsapevolmente per lo più - un mondo in cui la legge era davvero “la legge”, il Parlamento un vero “Parlamento”, il giudice un giudice nella pienezza di significato del termine. Appartiene alla condizione umana: quando finalmente raggiungiamo un ruolo che in passato ci appariva contornato da mistica bellezza ci troviamo in mano una realtà degradata, un’immagine frantumata. Come tutti i ricordi infantili. La nostra madeleine, con il cui inebriante profumo confrontiamo la realtà maleodorante di oggi, risale al mondo di 150 anni fa o forse più, che però era un mondo per molti versi orribile, di cui non accetteremmo più nessuna delle premesse: era un mondo in cui votava meno del 2% della popolazione, in cui il candidato deputato invitava a cena il suo collegio elettorale e in cui se la gente protestava e chiedeva di estendere il diritto al voto, il suffragio universale, il governo rispondeva mandando la cavalleria e ordinando di sparare con il cannone contro i manifestanti. Sì, in quel mondo di cui non abbiamo alcun rimpianto, lì probabilmente la legge era certa: non guardava in faccia a nessuno, disponeva per chiunque o per nessuno. Ma era un mondo che per fortuna non è più il nostro, un mondo che per altro è entrato in crisi presto; già a fine secolo Santi Romano parlava della crisi dello Stato, e si riferiva proprio a quello Stato. Quel mondo che nel suo apogeo è durato qualche decennio – qualche decennio di sangue, ripeto - è in crisi da almeno 120 anni. Altro che le nostalgie proustiane, dovremmo un po' riflettere sull'esistenza di categorie di cui sentiamo l’inattualità come fosse una perdita… (segue)



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