
Poggia sulle spalle dei grandi Maestri l’insegnamento secondo cui l’interpretazione giuridica – in ordine alla categoria dei possibili soggetti – deve essere definita autentica se posta in essere dallo stesso legislatore (“cuius est condere ius eius interpretari”), parlamentare o governativo, mediante un’altra legge o atti aventi la medesima forza (decreto legge, decreto legislativo et similia) con lo scopo di chiarire – ma c’è chi dice “imbrigliare” – il senso – inteso “come sinonimo di significato, ma anche come sinonimo di direzione” – di un documento normativo previamente emanato, attraverso la ricerca del necessario “nesso genetico”. Se è provato – come dimostrano socialità e storicità del diritto – che “nessun sistema giuridico è per sempre”, allora interpretare può (anche) voler dire – ritenendo subito “infondata” la teoria della natura dichiarativa dell’interpretazione autentica che nega, mediante un’insostenibile fictio, una successione (o un “conflitto”?) di leggi nel tempo – innovare. Per la stessa ragione il valore della certezza finisce, in maniera inevitabile, sotto assedio: ciò perché l’interpretazione autentica può non avere – inutile nasconderselo – il suo vero fondamento nel documento formale di cui tratta; così come non risulta essere vincolata da alcun criterio di diritto positivo sull’interpretazione (art. 12 preleggi); il suo contenuto, purché non vietato dalle fonti di rango costituzionale, non ha praticamente confini. Ne consegue il ruolo di indiscussa protagonista in alcune pericolose storture, che finiscono per ripercuotersi sull’autonomia individuale e la separazione dei poteri. Le sue radici storiche sono rinvenibili nella capacità normativa che, nella Roma antica, veniva riconosciuta al diritto giurisprudenziale. Quest’ultimo considerato, per l’appunto, fonte di interpretazione autentica. Scorrendo in avanti, analoga matrice è poi possibile rintracciare anche (e soprattutto) negli assolutismi, fondati – e sul punto andrebbe ricordato il metodo ipotetico-deduttivo, proprio della cosiddetta “geometria legale” – sull’indiscutibile autorità – “auctoritas, non veritas facit legem” – del Sovrano, inteso come “colui che nulla riceve dagli altri e non dipende altro che dalla sua spada”. Chi la difende, solitamente, sottolinea – facendo leva su una mentalità gerarchica e burocratica, ancorata ad un’impostazione formalistica e convenzionale – una sorta di superiorità del potere legislativo, in quanto diretto rappresentante del popolo e, quindi, della sovranità. Ma la sovranità – verrebbe subito da obbiettare – compete allo Stato, di cui il Parlamento è solo un Organo, come lo sono quello giurisdizionale e di governo. Sicché l’esegesi legislativa non sembra poter compensare, attraverso una pretesa solitudine, la “scarsa o nulla partecipazione alla vita politica”, peculiarità dei nostri giorni… (segue)
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