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NUMERO 12 - 19/06/2019

 Regole sul lobbying e regole sulla corruzione: le ragioni di un (auspicato) divorzio

Il tema del rapporto tra (eventuale) disciplina delle attività di lobbying e politiche anti-corruzione è al centro di approfonditi dibattiti in molti contesti diversi. Esso trascende dunque, sul piano teorico e concettuale, il caso italiano (che pur viene preso paradigmaticamente ad oggetto di indagine più approfondita), e può essere affrontato in termini generali, validi al di là di confini nazionali. Una prima considerazione che vorrei fare è dunque che le considerazioni svolte sul tema in questione non sono dipendenti dal contesto nazionale, ma a me pare possano applicarsi in diversi sistemi giuridici, a prescindere dal tipo di regolazione del lobbying eventualmente adottata, dal tipo di sistema penale, dalla forma di governo, dal grado di diffusione della corruzione, e in generale perfino di sistema giuridico. Queste variabili, pur evidentemente molto significative in sé, non sembrano cioè poter influenzare il discorso svolto in questo lavoro, che si sviluppa su un piano eminentemente astratto di politica e analisi economica del diritto, sulla base della convinzione che le conclusioni raggiunte siano applicabili in diversi contesti giuridici. Ferma restando questa premessa, è indiscutibile che, in prospettiva comparata, esistano notevoli differenze nel modo in cui nei vari ordinamenti si guarda al lobbying e poi si decide se e come regolamentarlo, ma anche dei tratti comuni che si ritrovano piuttosto spesso. Con particolare riferimento a questi ultimi, quanto meno a livello declamatorio è piuttosto frequente una (a mio avviso del tutto impropria) critica del lobbying come strumento atto ad inquinare l’altrimenti indisturbato perseguimento dell’interesse generale. Anche laddove questa pratica gode di una fortissima protezione costituzionale, come negli Stati Uniti, la sua percezione da parte del pubblico rimane molto spesso fortemente negativa, e perfino in sede scientifica vi è già da molto tempo chi propugna una necessità di limitare il lobbying (e la pratica strettamente connessa del finanziamento elettorale da parte dei gruppi d’interesse) proprio per via del sacrificio che comporterebbe per l’interesse generale. Addirittura, in taluni ordinamenti si è diffusa una caratterizzazione del lobbying come una sorta di corruzione organizzata, il che ci porta all’oggetto di nostro interesse: il lobbying ha effettivamente a che fare con la corruzione? Se così fosse, inevitabilmente le regole dettate per disciplinare questa attività dovrebbero misurarsi e intrecciarsi con la disciplina penalistica dei reati contro la pubblica amministrazione, e in particolare con il reato di corruzione. Tuttavia, io ritengo, e mi propongo di argomentare nelle pagine che seguono, che tale assimilazione vada rigettata, sia sul piano scientifico, sia conseguentemente su quello della politica legislativa. Dopo essermi soffermato su alcune pronunce giurisprudenziali italiane sul tema, ed aver brevemente allargato lo sguardo in prospettiva comparata (§ 2), illustrerò quali sono a mio avviso le ragioni teoriche, soprattutto su un piano economico-giuridico, che inducono a sostenere la necessità di mantenere distinto il piano della regolamentazione del lobbying da quello delle norme in materia di corruzione (§ 3). Nel paragrafo finale, trarrò le conseguenze, su un piano di policy, del ragionamento svolto, e concluderò formulando l’auspicio che le attuali proposte normative sul lobbying in discussione vengano dunque riviste quanto meno sul punto, a molte di esse comune, di istituire un nesso – invece da rigettare – tra l’attività di rappresentanza di interessi e la corruzione, e di conseguenza tra le rispettive discipline (§ 4)… (segue)



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