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NUMERO 2 - 23/01/2019

Social network, formazione del consenso, istituzioni politiche: quale regolamentazione possibile?

25 anni fa, nel 1994, irrompeva sulla scena politica nazionale Silvio Berlusconi con le sue televisioni. Ciò avveniva all’esito di una lunga vicenda, iniziata nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino e il disfacimento dell’impero sovietico, proseguita a livello nazionale con i referendum elettorali del 1991 e del 1993, con le indagini di Mani Pulite, che scoperchiarono - in maniera spesso violenta e strumentale - diffuse prassi corruttive legate al finanziamento dei  partiti, con la recrudescenza degli attacchi della mafia. Il sistema politico nato dopo la guerra, consacrato dalla Resistenza e dalla Costituzione repubblicana del 1948, fu travolto da questa sequenza di eventi. In questo ribaltamento, la televisione giocò un ruolo cruciale: e il sistema televisivo di quegli anni era basato su un duopolio tra la televisione pubblica e le televisioni di Berlusconi, duopolio che, pur dopo le profonde trasformazioni, continua ancora oggi a connotare il sistema televisivo italiano. La cultura politica tradizionale, formatasi nelle sezioni di partito, nei comizi e sulla carta stampata e che fino a poco tempo prima aveva discusso sulla terza rete Rai e sulla televisione a colori, ne fu stravolta, imbambolata, non capì cosa stava succedendo e una paradossale semialleanza, costruita da Berlusconi, e diversamente strutturata tra Nord (dove si presentavano insieme Forza Italia e Lega Nord) e Sud (dove l’alleanza si basava sul rapporto tra Forza Italia e l’MSI), vinse le elezioni del 1994 contro quella che veniva chiamata “gioiosa macchina da guerra”, costruita intorno al Partito democratico della sinistra, erede del vecchio PCI. Un pezzo di quella strana alleanza, che già allora rispondeva al nome della Lega (allora Nord), rimase fedele per pochi mesi e già alla fine dell’anno la rovesciava, alleandosi con altri partiti, che erano usciti sconfitti da elezioni costruite su sistemi parzialmente maggioritari. Poco dopo si tenevano 10 referendum, tra i quali tre sulle televisioni, e importanti elezioni regionali e locali. Le elezioni politiche non erano ancora fissate, ma si sapeva che quel “ribaltone” (fu allora che nacque quell’orribile definizione) non avrebbe potuto tenere a lungo. Il tema era allora, nel 1995, come si sarebbe potuto affrontare lo strapotere di una parte politica sui nuovi mezzi di comunicazione di massa. Il latinorum - come sempre nel nostro paese - venne in soccorso e il governo Dini adottò un decreto legge, immediatamente firmato dal Presidente della Repubblica, che istituiva la cosiddetta par condicio, imponendo una rigorosa parità di tempi nelle presenze  televisive delle forze politiche. Per inciso, il decreto legge colpiva anche i referendum, che si sarebbero svolti quasi tre mesi dopo e i promotori impugnarono il testo con un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte, che respinse la questione per quanto riguardava le elezioni, ma la accolse per quanto riguardava i referendum (sent. 161 del 1995, in cui chi scrive difendeva i promotori del referendum). La mancata applicazione della par condicio ai referendum permise a Berlusconi di schierare le sue televisioni contro i quesiti abrogativi proposti nei referendum televisivi, quesiti che alla fine non ottennero la maggioranza dei voti per giungere alla cancellazione di alcune norme che permettevano il possesso di tre reti e tetti molto alti di pubblicità… (segue)



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