Parte della dottrina ritiene che l’esercizio del potere sostitutivo in un assetto organizzativo informato ai principi costituzionali del decentramento e dell’autonomia non si configuri come un mero intervento repressivo, una sorta di sopraffazione legale, quanto piuttosto come una forma – sia pure estrema – di cooperazione. Lo Stato, persona giuridica per eccellenza, rappresenta una sintesi vasta di funzioni e poteri-doveri, ciascuno relativo a ordini di esigenze e bisogni pubblici il cui soddisfacimento è esclusivamente, o almeno più facilmente, realizzabile con una generalizzazione e un’uniformità, la più larga possibile, che garantiscano maggiore vastità di adesione, unità di indirizzo, impiego coordinato e unico di mezzi spesso importanti. Ma la vita sociale si compone di un complesso, minuto e talvolta inclassificabile tessuto di relazioni e rapporti per cui non tutti i problemi che da esso trovano genesi e si sviluppano, conducono necessariamente a una regolamentazione generale. La tensione – sempre crescente – tra unità e autonomia emerge con tutta evidenza nel caso di poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle regioni esercitati in forma indiretta: tale tensione, infatti, tipica dei sistemi statali a base decentrata, affiora in modo peculiare nei momenti di crisi dei rapporti centro-periferia allorquando tra lo Stato e le sue componenti territoriali sorga un contrasto di entità tale da minare alla radice la tenuta complessiva dell’ordinamento. In questi casi, si impone in termini ineludibili una scelta tra le contrapposte esigenze della tutela dell’unità dell’ordinamento e della garanzia delle prerogative degli enti sub-statali: esigenze entrambe costituzionalmente rilevanti che richiedono di essere parimenti soddisfatte. All’origine del dibattito dottrinale sull’istituto della sostituzione è stato dato ampio spazio alla questione – proposta dalla giuspubblicistica degli inizi del secolo scorso – circa la possibilità di considerare i poteri sostitutivi come poteri di controllo o piuttosto come una particolare forma di interferenza delle autorità superiori nei confronti di quelle inferiori, caratterizzata dalla possibilità delle prime di dar luogo ad atti di amministrazione attiva. Con l’avvento costituzionale si è assistito a una recessione della validità del modello delineato dalla menzionata dottrina di inizio secolo sul cd. controllo sostitutivo in ragione dell’interesse – sempre maggiore – per i poteri di sostituzione aventi lo scopo di garantire la funzionalità dell’amministrazione, proporzionalmente crescente all’espansione delle funzioni pubbliche, al consolidamento degli indirizzi di decentramento, all’infittirsi dell’intreccio procedimentale e finanziario che lega tra loro le attività dispiegate da amministrazioni pubbliche prive di collegamenti di carattere verticale. Qualora la presenza di poteri di sostituzione – intesi come manifestazioni di un potere di amministrazione attiva dove il momento del controllo assume una valenza puramente accertatrice dell’eventuale inerzia o inadempienza – , fosse collegata a un assetto delle relazioni tra Stato e regioni in grado di contemperare il principio dell’autonomia con quello della collaborazione si dovrebbe necessariamente ragionare sulle ripercussioni che dall’attivazione di tale potere conseguono. Solo del resto attraverso l’analisi dell’evoluzione del potere di sostituzione nel corso della storia costituzionale del nostro Paese si può arrivare a comprendere il carattere atipico dell’attuale impiego dell’istituto della sostituzione in forma indiretta. Va preliminarmente considerato che l’evoluzione delle dinamiche istituzionali relative al potere di sostituzione – anche a seguito dell’avvento di una crisi economico-finanziaria di notevole estensione che ha fatto emergere una rivalutazione delle istanze di centralizzazione e che ha spinto lo Stato a mettere in piedi estremi meccanismi per la riappropriazione delle competenze costituzionalmente trasferite (sussidiarietà, avocazione, funzione di indirizzo-coordinamento) – abbia consacrato una regola valida in generale. La regola dimostra che al ricorrere di interessi di dimensione regionale intrecciati ad altri di dimensione nazionale la funzione amministrativa (e la correlata competenza legislativa a disciplinarla) spetta alla Regione a meno che lo Stato non dimostri la sussistenza di un interesse infrazionabile, nel senso che la sua attuazione debba passare per una attività diretta da parte del potere centrale. Ne consegue che se la sussistenza di un interesse unitario non consente di giustificare l’esproprio della competenza amministrativa nei confronti dell’ente territoriale, deve comunque essere previsto – come osserva la Corte costituzionale – un meccanismo sostitutivo che permetta al livello di governo superiore di ovviare all’eventuale inattività dell’ente minore. Tuttavia le tradizionali categorie dogmatiche non sono più in grado di spiegare le recenti dinamiche sostitutive e, in particolare, gli effetti della sostituzione statale esercitata in forma indiretta sull’autonomia regionale a seguito della progressiva e recente espansione del fenomeno dei commissariamenti per il rientro dal disavanzo nel settore sanitario. La riscoperta del potere sostitutivo appare fortemente legata ai poteri riconosciuti in capo alle autonomie territoriali riguardanti funzioni che, pur richiedendo un esercizio capillare sul territorio, mirano a tutelare un groviglio di interessi e valori che si rivelano non frazionabili, poiché spesso incidenti sul godimento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. A tale componente di tipo “valoriale” se ne aggiunge una prettamente “economica”, tendente a valorizzare un crescente e frequente utilizzo della leva sostitutiva in considerazione della tutela degli equilibri economici e finanziari dello Stato... (segue)