Molto si è scritto e si continua a scrivere sul rapporto tra Stato ed economia. Si tratta di un rapporto storicizzato, in cui le trasformazioni degli assetti istituzionali e dei fattori economici aprono a continui ripensamenti. Le analisi condotte dagli studiosi di economia e di diritto mostrano come ciclicamente si passi da fasi storiche variamente fiduciose verso la capacità allocativa e distributiva del mercato, con conseguente privatizzazione, liberalizzazione e deregolamentazione, a periodi caratterizzati da una quota significativa di produzione pubblica e di severa regolamentazione esterna. L’esperienza indica il continuo alternarsi di episodi di eccessiva attività dello Stato seguiti da reazioni anche repentine nella direzione opposta. L’estensione ed il carattere del ruolo dello Stato dipendono da fatti economici, ma sono anche il risultato di giudizi di valore e a volte di preconcetti che nascono dall’incapacità dell’assetto messo in campo di soddisfare le aspettative. La crisi economica e finanziaria in atto ha rimesso in discussione le politiche neoliberiste sviluppatesi a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, dando nuovamente vigore alle riflessionikeynesiane sul fallimento del mercato e sulla necessità di interventi pubblici volti a correggere le disfunzioni endemiche. Dopo un lungo periodo di estrema fiducia nel mercato e nei suoi meccanismi di autoregolamentazione, sembra riemergere il favore per una più incisiva presenza delle istituzioni nella sfera economica. Le riflessioni, per altro, vanno ben oltre la storica contrapposizione tra “interventismo” e “astensionismo”. Tra chi sostiene che l’economia di mercato sarebbe l’opzione più efficace in termini di crescita e di benessere e chi, al contrario, ritiene che le funzioni economiche dello Stato debbano manifestarsi anche attraverso la produzione diretta di beni e servizi e mediante norme impositive di controlli interni, ancorate a politiche di indirizzo e programmazione... (segue)
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