Questa sembra l’idea sottesa alla scelta del legislatore italiano in sede di recepimento delle tre nuove direttive europee sugli appalti e concessioni pubblici. Esisteva già un “codice”, che, a suo tempo, nel 2006, aveva segnato un traguardo: l’Italia, emulando la Francia, aveva fatto confluire tutta la normativa del settore in un unico testo. L’impostazione – figlia della legge Merloni del 1994, a sua volta nata sulla scia di “tangentopoli” - era quella di un azzeramento formale della discrezionalità delle stazioni appaltanti. Salvo poi a intervenire reiteratamente con decreti legge per introdurre regimi “alleggeriti”. Il codice non aveva ancora festeggiato il decimo compleanno: ma era in cattiva salute, cresciuto troppo e male, rattoppato oltre 50 volte. Si è scelto di farne uno nuovo, secondo canoni di “semplificazione e trasparenza”. Il Parlamento, con oltre 70 principi di delega (rispetto ai quattro scarni della delega n. 62/2005), ha impartito i criteri per un vestito tagliato “su misura”, della realtà italiana... (segue)
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