La data di chiusura dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (comunemente definita “Brexit”) è stata fissata al 29 marzo 2019, due anni dopo la data di notifica da parte del Governo britannico della dichiarazione di recesso ai sensi dell’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea (TUE). Quello sarà l’ultimo giorno possibile per la stipula dei trattati diretti a disciplinare gli effetti della cessazione dello status di Stato membro europeo del Regno Unito e fissino le regole dei futuri rapporti tra questo, l’Unione e i suoi restanti Stati membri. Peraltro, a quasi due anni dal referendum del 23 giugno 2016 e a circa un anno dalla notifica alla Commissione europea della dichiarazione del Governo britannico di voler recedere dall’Unione, eseguita il 29 marzo 2017, non può dirsi raggiunto alcun punto fermo in merito ai possibili contenuti di tali accordi, sui quali i due contendenti si sono limitati fino ad oggi a manifestare orientamenti di massima e, specialmente da parte del Regno Unito, a sovrapporre via via ipotesi diverse e ad esprimere, talvolta, posizioni decisamente in contrasto con quelle espresse in precedenza o, più semplicemente, a lasciar trascorrere invano del tempo prezioso a causa di una palese difficoltà di comunicazione. Stando, poi, a recenti fonti di stampa, un position paper che sintetizza i termini della proposta britannica di uscita dalla UE che sarebbe stato consegnato alla Commissione UE intorno alla metà di febbraio prevedrebbe una transizione a tempo indeterminato e l’esclusione del Regno Unito dalla giurisdizione della Corte di giustizia anche prima della sua uscita definitiva dalla UE. La scarsa chiarezza nell’atteggiamento assunto dal Governo del Regno Unito sulla direzione da imprimere alle trattative è senz’altro il frutto dell’assenza di un preciso “progetto politico” da porre a base dei criteri da adottare nella definizione dei suoi rapporti con l’Unione Europea e, in questo ambito, della disciplina fiscale da adottare dopo l’uscita. La situazione è aggravata dal perdurare anche in questi ultimi tempi dell’incertezza delle autorità britanniche nel formulare le loro proposte, che sta generando perplessità e sconcerto nell’opinione pubblica del Paese dopo ben diciotto mesi dalla sorprendente vittoria del “leave”. E, del resto, l’idea che uno Stato membro potesse attivare l’art. 50 del TUE era considerata remota, se non addirittura impossibile, dai suoi stessi estensori, tenuto conto che la norma vedeva la luce in un momento in cui si manifestavano notevoli spinte nella opposta direzione di un allargamento diretto a superare gli stessi confini geografici dell’Europa.
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