Già in passato si è avuto modo di sottolineare che anche nell’ultima riforma della filiazione - finalizzata, tra l'altro, a completare, in attuazione del dettato costituzionale, nonché, oramai, del più ampio sistema italo-europeo delle fonti, quel processo di parificazione tra figli avviato con il precedente intervento riformatore del 1975 - nonostante si sia cercato di introdurre nel nostro ordinamento la categoria giuridica della responsabilità genitoriale al posto della tradizionale potestà genitoriale, ancora emerge una visione in parte "adultocentrica", che sembra saper andare soltanto dal genitore verso il minore e non anche in direzione opposta. Su questa linea si consideri, a titolo esemplificativo, il nuovissimo art. 315 bis c.c., che, ad avviso di molti, racchiude il tentativo di dare vita ad un primo «statuto dei diritti del figlio», nel quale, al secondo comma, è previsto che «Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti». Una novella decisamente lontana dalla corrispondente disposizione della «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», e cioè l’art. 24, nella quale è, invece, stabilito che «Ogni minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse». Dunque, una disposizione, quest’ultima, dove in primo luogo si valuta se il rapporto con i genitori sia, o sia ancora, nell’interesse del minore, e nella quale si dà soprattutto risalto al rapporto personale e diretto del minore con i genitori stessi, in una prospettiva evidentemente relazionale volta ad evocare un modello di famiglia non necessariamente fondato su rapporti di sangue, ma effettivamente preordinato allo sviluppo della personalità del minore. Viceversa, con l'art. 315 bis c.c., come visto, si è introdotta una previsione che ricalca in parte quella già contenuta all’art. 1 l. n. 184 del 1983 in tema di adozione, secondo la quale « [i]l minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’àmbito della propria famiglia». Tuttavia, non può assolutamente sottovalutarsi che, anche in ragione di tale previsione, a lungo è prevalso l'orientamento in virtù del quale nel nostro ordinamento il valore da salvaguardare in assoluto, e talune volte "ad ogni costo", è quello del legame del minore di età con la famiglia biologica, trasformandosi così l’adozione in una soluzione del tutto residuale, destinata ad intervenire quando non è più in grado di assicurare al minore stesso una effettiva protezione. Ed il timore che il secondo comma dell’art. 315 bis c.c. potesse risolversi in un “nulla di fatto” rispetto al ruolo da ascriversi alle comunità familiari in relazione alla personalità dei minori di età che ne fanno parte, ha trovato conferma nella conseguente e successiva modifica dell’art. 15, comma 1, lett. c), l. n. 184 del 1983, intervenuta a seguito del d.lgs. n. 154 del 2013, in base alla quale lo stato di adottabilità del minore, tra l’altro, può essere, oramai, dichiarato là dove «è provata l’irrecuperabilità delle capacità genitoriali dei genitori in un tempo ragionevole». Ebbene, come emerge anche dalle prime pronunce in materia successive alla riferita novella, la modifica in esame, avendo come punto di riferimento principale - ancora e soltanto - la condizione dei genitori, sembra evocare proprio quella controversa ricostruzione della adozione stessa come extrema ratio, ovvero di una adozione che è disposta solo allorquando il danno per il corretto e completo sviluppo psico-fisico del minore si è già definitivamente verificato... (segue)
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