Dopo quasi un decennio di letargo -il secondo, essendo il primo durato, se si fa eccezione per la iniziativa della Toscana nel 2003, dal 2001 fino agli anni 2006/2007 quando contemporaneamente Lombardia e Veneto avevano avviato la procedura per raggiungere l’intesa con lo stato e lo stesso aveva fatto subito dopo, nel 2008, il Piemonte- il regionalismo differenziato si è risvegliato ed ha preso slancio e vigore. Per prime si sono mosse le regioni Lombardia e Veneto, con un referendum consultivo celebrato il 22 ottobre 2017 per rafforzare il valore della loro iniziativa nei confronti del governo dello stato. Subito dopo ha avanzato al governo la sua proposta diretta per iniziare le trattative anche la regione Emilia Romagna. In un tempo ragionevolmente circoscritto, le tre regioni del centro-nord -dopo aver avviato il processo di attuazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dalla riforma realizzata con la legge cost. 3/2001, che prevede la possibilità di attribuire alle regioni ordinarie che lo richiedano “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti le materie indicate dal terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo e riguardanti la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’eco-sistema e dei beni culturali ed avere raggiunto un “accordo preliminare” con il precedente governo su un ‘pacchetto’ di cinque materie da trasferire- oggi si trovano in dirittura d’arrivo per concludere l’intesa con il nuovo governo uscito dalle urne del 4 marzo 2018. A queste, altre regioni si sono via via aggiunte in questo arco temporale con l’adozione di atti formali di iniziativa o anche solo attraverso esternazioni dei loro organi di governo che hanno dichiarato di volere anch’essi intraprendere questa strada. Così che oggi, tranne l’Abruzzo ed il Molise, si può dire che tutte le regioni ordinarie sono interessate alla revisione della loro condizione di autonomia e chiedono chi più e chi meno l’attribuzione di “ulteriori” materie da gestire direttamente. In sostanza, come è facile convenire, questa volta, innanzi tutto per il coinvolgimento del popolo sovrano nei due referenda celebrati nel lombardo-veneto, poi per il movimento compatto di tutte le regioni del centro-nord ed infine per il quadro politico in cui l’iniziativa si sta sviluppando -e, cioè, dopo la bocciatura con il referendum del 4 dicembre 2016 della riforma costituzionale voluta da Renzi e dopo la formazione del nuovo governo M5S-LEGA che, nel “contratto” sulla cui base si è costituito, ha posto “come questione prioritaria ... l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedono, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione”- si ha la ragionevole sensazione che il procedimento di differenziazione regionale in base all’art. 116/3 cost. non si arenerà facilmente alle prime difficoltà già peraltro incontrate e, come dimostrano i pre-accordi anche di natura finanziaria che trapelano dalle prime bozze d’intesa circolanti, andrà avanti fino a raggiungere il suo compimento e quindi a realizzare una riforma che certamente avrà tratti di ‘rivoluzionarietà’. A meno che la presenza preponderante nel governo dello stato da parte della forza politica (la LEGA) che più ha spinto nella direzione di una asimmetria regionale, per una sorta di legge del contrappasso essendo peraltro diventata nel frattempo un movimento sovranista e quindi nazionalista, non blocchi con l’assunzione di una posizione ‘estremista’ il processo fin qui positivamente sviluppato. Ma si tratta, allo stato, di un’ipotesi meramente teorica. Dunque, il regionalismo differenziato vedrà molto probabilmente la luce e quindi è assolutamente necessario capire quali siano le possibili opportunità che offre e le eventuali criticità che determina… (segue)
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