La sentenza 240 rimarrà nell’immaginario collettivo per almeno due motivi. Il primo è che non passerà inosservato il ritorno della Corte sulle orme di ciò che molti di noi speravano fosse stato un mero “incidente” di percorso e, cioè, la sentenza 1/2014, con il seguito di polemiche che si era attirata per aver seppellito con un colpo di penna cinquant’anni di consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di rilevanza della questione. Il secondo è che la n. 240 opera un revirement assai esplicito (e circostanziato) rispetto alla sentenza n. 50/2015 che, come noto, salvò molte norme della legge Delrio (compresa l’elezione indiretta del sindaco metropolitano) utilizzando lo scudo dell’imminente riforma costituzionale Renzi-Boschi che, però, non venne confermata dal voto referendario. Sulla prima questione l’appunto è critico: l’andamento a fisarmonica della Corte su di un aspetto cosi delicato e decisivo delle condizioni del proprio operare (l’accesso) non può che suscitare perplessità. La n. 1/2014 (con cui la Corte accolse una questione in via diretta, con la sola interposizione di un’azione di accertamento) pareva fosse stata superata dalle successive nn. 110 e 193/2015 che avevano fortemente ridimensionato il precedente, attraverso pronunce di inammissibilità. Nel caso che ha dato origine all’attuale sentenza si torna indietro e si rilegittima un accesso diretto: un cittadino siciliano aveva, infatti, adito il tribunale ordinario ex art. 702 bis c.p.c., convenendo in giudizio la città metropolitana di Catania e il suo sindaco affinché venisse “accertato” il suo diritto “a che l’amministrazione dell’ente locale di secondo livello (in Sicilia cd città metropolitana) sia conformata anche a mezzo della sua scelta elettorale e sia responsabile nei confronti di tutti gli elettori”… (segue)
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