La frequenza con la quale si è assistito in Italia alla formazione di governi di coalizione è cosa ben nota e certamente anche testimoniata dall’ampio numero di studi che in dottrina si sono succeduti sul tema.Il ricorso a tale formula di governo può essere collocata, almeno tendenzialmente, in una precisa fase della nostra storia Repubblicana, quella cioè della Repubblica parlamentare a funzionamento assembleare, fondata su una democrazia di partiti legittimati da una comune matrice antifascista e caratterizzata dall’opzione a favore di un sistema elettorale di tipo proporzionale. In questa fase il “multipartitismo estremo” che caratterizza la forma di governo italiana - multipartitismo presente invero sin dalla fase formativa della Repubblica - è la ragione principale per la quale, dopo i primi governi guidati da De Gasperi e il fallimento del tentativo di riforma della legge elettorale nel 1953. diviene necessario ricorrere a governi di coalizione; nessun è più in grado, infatti, di ottenere consensi tanto ampi da poter da solo costituire un governo che goda dell’appoggio parlamentare. A ciò si accompagna inoltre, in quegli anni, la cosiddetta conventio ad excludendum, l’esclusione cioè del Partito comunista dall’area di governo sul presupposto dell’inidoneità ideologica di quest’ultimo a partecipare alla definizione dell’indirizzo politico governativo. La conseguenza è rappresentata dalla formazione, quindi, di governi di coalizione caratterizzati dalla cristallizzazione dei ruoli di minoranza e opposizione e dall’affermazione di una “sorta di democrazia bloccata” in cui l’alternanza non è possibile, ma, al tempo stesso, la coalizione tra partiti riguarda solo alcuni tra questi, stabilmente collocati nell’area di governo, come altrettanto stabilmente ne sono esclusi, aprioristicamente, altri... (segue)