Il conferimento degli uffici giudiziari direttivi e semi-direttivi da parte del C.S.M. ha determinato in diverse occasioni il sorgere di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato promossi dall’organo di “autogoverno” della magistratura nei riguardi del Ministro della giustizia o del giudice amministrativo al quale, com’è noto, l’art. 17, c. I, della l. 24 marzo 1958 n. 195 attribuisce la giurisdizione nei riguardi di tutti gli atti di natura non disciplinare che questi è chiamato ad adottare. Nello specifico, sono piuttosto note le sentt. n. 379 del 1992 e n. 380 del 2003 con le quali la Consulta si è pronunziata in ordine alla titolarità del potere di nomina chiarendo, con una soluzione non a caso definita “salomonica” dalla dottrina, la portata del “concerto” ministeriale richiesto dall’art. 11, c. II, della l. n. 195 del 1958 ai fini del conferimento degli uffici direttivi improntando il rapporto tra Consiglio e Ministro al rispetto del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato e individuando nella figura del concerto un “vincolo di metodo ma non già di risultato”. In particolare, la Consulta ha dimostrato di disattendere tanto la tesi che vedeva nel concerto ministeriale “l’accordo necessario di volontà” tra il Consiglio e il Ministro, quanto l’orientamento che riduceva l’intervento del Guardasigilli ad un parere obbligatorio ma non vincolante preferendo una terza via che, pur salvaguardando il principio dell’autonomia della magistratura attraverso la prevalenza della valutazione espressa dal C.S.M. in caso di contrasto non sanabile, attribuisce ai due organi il compito di mettere in pratica tutti gli sforzi necessari per addivenire ad una soluzione condivisa. Sicchè i due soggetti costituzionali sono chiamati a superare i rispettivi contrasti attraverso una vera e propria forma di concertazione nell’ambito della quale il Ministro e il Consiglio devono improntare i reciproci rapporti al rispetto del principio di correttezza evitando “atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati”. In questa sede, è appena il caso di sottolineare come la ricostruzione del principio di leale cooperazione tra poteri dello Stato attraverso il richiamo al canone di correttezza, cui i predetti organi devono improntare la propria condotta e i reciproci rapporti, induce a ritenere che la Corte abbia fatto un’inconsapevole applicazione del principio di buona fede oggettiva al di fuori dell’alveo civilistico. Del resto, sono ben noti gli orientamenti dottrinari, recepiti da una parte della giurisprudenza amministrativa, che hanno suggerito l’applicazione del principio in parola anche nell’ambito del diritto pubblico e, specificamente, con riguardo ai rapporti di diritto amministrativo. Invero, non sono mancate in dottrina voci critiche in ordine alla soluzione prospettata dalla Corte e tese a sottolineare come il C.S.M., a fronte del pervicace rifiuto del Ministro di fornire il concerto, possa far valere la propria posizione di “decisore di ultima istanza” che pure la Consulta gli riconosce, solo attraverso la proposizione di un nuovo conflitto tra poteri dello Stato ove è chiamato a fornire la prova di aver correttamente instaurato, seppur infruttuosamente, la procedura di concertazione con il Ministro. Tutto ciò a discapito delle esigenze di celerità e di tempestiva definizione di siffatti procedimenti il cui protrarsi influisce sull’organizzazione degli uffici giudiziari e, in definitiva, sul buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia... (segue)
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