Tra i “grandi temi” che negli ultimi anni hanno animato il dibattito giuridico, così come l’opinione pubblica, un posto di rilievo riguarda la regolamentazione del fine vita. La crescente incidenza della medicina nella gestione delle fasi ultime di esistenza della persona, si è accompagnata in maniera biunivoca all’evoluzione di una coscienza sociale divisa entro la quale convivono, sovente senza che si renda possibile una reductio ad unum, posizioni culturali, religiose ed etiche che rendono complessa la mediazione funzionale all’individuazione di una regolamentazione che miri ad essere comunemente accettata. Una eterogeneità intellettuale che rende quanto mai complessa la funzione del diritto come strumento di regolamentazione dei fenomeni sociali ove il fondamento giustificatorio del suo intervento poggi su basi magmatiche la cui percezione, fortemente cangiante a seconda del punto di vista cui ci si approcci, tende a fare della propria posizione l’unica accettabile, finanche legittima sul piano costituzionale. In questo mosaico complesso, inoltre, non si deve dimenticare il peso della componente emozionale che spesso tende a strumentalizzare l’evenienza del caso concreto per trarne conclusioni sospinte più che da una visione complessiva dell’orizzonte cui si dovrebbe mirare, dalla contingenza emergenziale dettata della singola, per quanto drammatica, fattispecie, traendone elementi parziali e privi del necessario portato olistico e teleologico. Per quanto la discussione, soprattutto sul piano dottrinale, abbia mostrato un grado di latenza considerevole essendosi protratta ininterrotta nel corso degli ultimi anni, come dimostra la rilevante produzione scientifica, a livello politico e di opinione pubblica, il tasso di attenzione è in gran parte dipeso dall’avvicendarsi di drammatiche esperienze personali (su tutti si pensi ai casi riguardanti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro) risolte in prima battuta da interventi giudiziari e la cui parziale cristallizzazione si è realizzata solo a distanza di anni con l’approvazione della legge n. 219 del 22 dicembre 2017. Un’attitudine il cui consolidamento ha trovato conferma nella più recente vicenda di Marco Cappato – imputato davanti al Tribunale di Milano con l’accusa di aver agevolato, ai sensi dell’art. 580 c.p., il suicidio di Fabiano Antoniani – da cui è scaturita l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale. Un provvedimento per molti versi inedito, sia per quanto riguarda la tecnica processuale impiegata, sia per i profili di merito sollevati, che nell’individuazione dei profili di illegittimità dell’attuale configurazione del divieto di aiuto al suicidio, ne ha postergato il giudizio definitivo, rinviando la trattazione della causa al 24 settembre 2019, sollecitando il previo intervento “adeguatore” del Parlamento… (segue)
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