Log in or Create account

FOCUS - Territorio e istituzioni N. 7 - 07/03/2025

 Corte Costituzionale, Sentenza n. 94/2025, in tema di previdenza, assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo, divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo

Corte cost., sent. n. 94 dell’11 giugno - 3 luglio 2025 (in G.U. n. 28 - Mercoledì, 9 luglio 2025)

La tutela dei diritti del lavoratore con assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo: espunzione del divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo e bilanciamento con i limiti delle risorse disponibili.

1. Con la sentenza n. 94 del 2025 la Corte costituzionale ha dichiarato, “a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 16, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui non esclude, dal divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo, l’assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo”.

La questione sulla legittimità dell’art.1 comma 16 della legge n.335/1995, in combinato disposto con l’art.1 comma 3 della legge n. 222/1984[1], è stata sollevata dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 settembre 2024, in riferimento agli artt. 3 e 38, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevede la corresponsione dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario di invalidità calcolato interamente con il sistema contributivo.

2. La Corte, sulla base di uno scrutinio “per linee interne” della disciplina dell’assegno in esame (e cioè dopo aver svolto una profonda disamina del quadro normativo di riferimento), ha ritenuto di accogliere la questione, in relazione all’art. 3 Cost. (per violazione del principio di parità di trattamento e per irragionevolezza intrinseca della norma), con assorbimento delle ulteriori questioni, preliminarmente precisando il thema decidendum da delimitare unicamente quanto all’art. 1, co. 16, della legge n. 335 del 1995, nella parte in cui include l’assegno ordinario d’invalidità nel divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo ai trattamenti pensionistici liquidati esclusivamente con il sistema contributivo[2].

3. L’accoglimento della questione, per la ragioni sinteticamente in nota rappresentate, è stato calibrato attraverso un peculiare bilanciamento della tutela dei diritti del lavoratore invalido, essendo stato espunto, per il lavoratore con assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo, il divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo, così equiparando detto trattamento a quello dei lavoratori il cui assegno ordinario d’invalidità sia liquidato con sistema retributivo o misto.

La Corte ha tentato di neutralizzare il rischio - conseguente all’accoglimento della questione - dell’aggravio a carico della finanza pubblica ipotizzato per tabulas dall’INPS (anche se il prospetto prodotto in udienza - così, punto 15 del diritto della sentenza - non è stato reso pubblico), specie quello connesso agli arretrati, attraverso la tecnica della pronuncia di illegittimità costituzionale con decorrenza degli effetti ex nunc, come avvenuto in occasione della richiamata sentenza n. 152 del 2020 (che si inscrive nel solco di precedenti della stessa Corte: sent. n. 10/2015; nello stesso senso anche sentt. n. 246/2019, n. 74 e n. 71/2018), graduando gli effetti temporali del decisum, facendoli decorrere (solo) dal giorno successivo a quello di pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale. Ciò allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, […] garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali (sentenza n. 264 del 2012)».

Richiamando la sentenza n. 152, la Corte ha rimarcato che:

a) le scelte allocative di bilancio proposte dal Governo e fatte proprie dal Parlamento, pur presentando natura altamente discrezionale entro il limite dell’equilibrio di bilancio, vedono naturalmente ridotto tale perimetro di discrezionalità dalla garanzia delle spese costituzionalmente necessarie, inerenti all’erogazione di prestazioni sociali incomprimibili (ex plurimis, sentenze n. 62/2020, n. 275 e n. 10/2016);

b) sarà compito del legislatore «provvedere tempestivamente alla copertura degli oneri derivanti dalla pronuncia, nel rispetto del vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico»;

c) resta ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare, ed eventualmente di coordinare in un quadro di sistema, la disciplina vigente, purché sia idonea a garantire, ai titolari di assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo, l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione.

4. A prescindere dal giudizio sugli aspetti di merito e dalla coerenza della pronuncia con gli intenti di fondo della cd. riforma “Dini” del 1995, improntata ad una riduzione della spesa pensionistica, per i profili strettamente finanziari - che segnatamente nella presente nota rilevano - deve evidenziarsi che, come nell’analoga sentenza n. 152/2020 della Corte, nella presente sentenza si può dire emerga la consapevolezza del necessario contemperamento della tutela dei diritti che costano con “il limite dell’equilibrio di bilancio”. Detta consapevolezza risulta evidenziata dalla decorrenza degli effetti della sentenza di accoglimento, che intende delimitare l’impatto della pronuncia escludendo i cd. arretrati, profilo (asseritamente) di rilevante aggravio della finanza pubblica, come denunciato nel prospetto dell’INPS (peraltro non agli atti).

La Corte però, una volta affermata la sussistenza del diritto nell’an, rinvia al legislatore il quomodo e il quantum della disciplina da riservare all’assegno di invalidità[3], tenuto appunto in considerazione l’equilibrio di bilancio, in una congiuntura in cui il cd. equilibrio dinamico è, in realtà, oramai fortemente irrigidito per effetto dell’entrata in vigore del nuovo framework di governance europea che proietta, per l’Italia, a garanzia del rispetto dell’art. 97, co.1, Cost., il percorso di rientro dal debito nell’arco temporale del settennio, percorso non rimodulabile se non in casi del tutto eccezionali. Inoltre, il rispetto del principio costituzionale della copertura finanziaria dell’onere (art. 81, co. 3, Cost.) - collegato al precedente punto - risulta esposto dalla Corte in modo molto sfumato: infatti, il metodo cui la Corte fa ancora ricorso nel mutato contesto di regole eurounitarie di finanza pubblica non può non indurre la Corte medesima ad avere maggiore consapevolezza degli esiti delle proprie pronunce “che costano”, attraverso, ad esempio, la quantificazione dell’onere e le compatibilità con i vincoli di bilancio e dunque degli esiti delle stesse.

A tale ultimo riguardo, la Corte si limita ad enunciare un orientamento per il legislatore, laddove, nella sentenza, si trova affermato che rimane “ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare, ed eventualmente di coordinare in un quadro di sistema, la disciplina vigente, purché sia idonea a garantire, ai titolari di assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo, l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione” (punto 16 del diritto). Conclusione, quest’ultima, che, in astratto, non esclude, da parte del legislatore - chiamato ad operare il “contemperamento dei valori costituzionali”: tutela dei diritti e risorse scarse - una non irragionevole ricerca di coperture alternative fuori settore, per compensare la maggiore spesa derivante dall’emersione del nuovo onere.

5. Il punctum dolens di tutta la costruzione della sentenza, limitatamente agli aspetti finanziari, sta però nel fatto che, nonostante tutte le accortezze, permane una giurisprudenza con effetti di aggravio sulla spesa pubblica, in un quadro, come ricordato, in cui le regole, anche costituzionali, risultano modificate nella forma (“novella” del 2012) e nei contenuti (nuovo Patto di stabilità e crescita entrato in vigore nel 2024, incentrato proprio sul controllo pluriennale di tetti di spesa). Alla luce di ciò, non appare più congruo, sia pur per tener conto di altri princìpi costituzionali, dar luogo ad un onere con una sentenza e rinviare al legislatore per la relativa copertura, la cui individuazione è una scelta, tipicamente, politico-discrezionale, così come la creazione dell’onere, perché di ciò si risponde davanti al corpo elettorale, trattandosi, nella specie, di allocazione di risorse pubbliche (art. 1, co. 2, Cost.).

Né appare congruo evocare ancora i “principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali (sentenza n. 264 del 2012)”, richiamandosi cioè ad una sentenza emanata in un’epoca antecedente all’entrata in vigore della novella costituzionale in materia, riferita infatti all’esercizio finanziario 2014. Lo stesso si può osservare per la riduzione del perimetro di discrezionalità delle scelte allocative onde tener conto delle spese costituzionalmente necessarie, inerenti all’erogazione di prestazioni sociali incomprimibili: concetti, questi ultimi, altamente opzionali e dunque da riservare a chi ne ha poi la responsabilità politica.

Si osserva, in conclusione, che la Corte è chiamata ad una ponderata riconsiderazione del tema diritti-risorse, nel senso di chiarire i propri limiti nel bilanciamento dei valori costituzionali, che, come per la sentenza in commento – nonostante il ricorso a dispositivi limitativi degli effetti delle proprie pronunce additive (a valenza ex nunc) - rischia di invadere scelte riservate al legislatore. In tale complessa situazione, più prudente potrebbe essere il ricorso alla sentenza monito o eventualmente alla tecnica della “doppia pronuncia”[4]. Sul punto la riflessione rimane aperta.



[1] L’art.1, co. 16, della legge n.335/1995 stabilisce che “alle pensioni liquidate esclusivamente con il sistema contributivo non si applicano le disposizioni sull'integrazione al minimo.” L’art.1 comma 3 della legge n.222/1984 dispone in riferimento all’assegno ordinario di invalidità di cui al comma 1 dello stesso articolo, che “qualora l'assegno risulti inferiore al trattamento minimo delle singole gestioni, è integrato, nel limite massimo del trattamento minimo, da un importo a carico del fondo sociale pari a quello della pensione sociale di cui all'articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni e integrazioni.”

[2] Per consentire un orientamento, la complessa ratio decidendi può riassumersi nel senso che: a) l’argomento della difesa erariale perde consistenza proprio con riferimento alla tutela pensionistica per l’invalidità, collegata a uno stato di bisogno del tutto peculiare, in cui la persona che la richiede ha perso in larga parte la capacità lavorativa; b) il particolare favor per il trattamento di cui si discute è stato confermato anche in occasione del generale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo (art. 1, co. 14, l. n. 335/1995); c) che l’assegno ordinario di invalidità, sulla base della vigente normativa, è da sempre giustificato dalla peculiarità dello stato di bisogno sotteso alla relativa tutela “mista” (assistenziale e previdenziale) accordata, in quanto considerato meritevole di una maggiore valorizzazione del principio di solidarietà, tant’è che l’assegno ordinario d’invalidità non è stato intaccato il requisito contributivo “ridotto” di cui all’art. 4 della legge n. 222 del 1984, ancora una volta in ossequio alla peculiarità dello stato di bisogno da fronteggiare; d) l’argomento di far fronte alla necessità di contenimento della spesa previdenziale, che è alla base del complessivo intervento riformatore (art. 1, co. 1, 3 e 5, l. n. 335/1995), come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale (ord. n. 400/1999), non può essere validamente speso con riferimento all’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità, la cui disciplina è, a sua volta, affatto diversa da quella dettata per l’integrazione degli altri trattamenti pensionistici (come è possibile ricavare dal disposto di cui all’art. 1, co. 3, l. n. 222/1984); e) il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo di computo delle prestazioni è del tutto indifferente rispetto al finanziamento dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità, che già era prima, ed è rimasta poi, l’unica interamente sostenuta dalla fiscalità generale (art. 1, co., l. n. 222/1984; art. 37, l. n. 88/1989); f) la peculiarità dell’assegno ordinario d’invalidità è rappresentata dal fatto che di tale trattamento il lavoratore può aver bisogno anche prima del raggiungimento dell’età prevista per poter godere dell’assegno sociale, che attualmente viene erogato solo ai cittadini ultrasessantasettenni, sicché, il soggetto in età attiva bisognoso della tutela di cui si discute, in ragione della significativa riduzione della sua capacità lavorativa conseguente all’invalidità, può essere esposto al rischio di rimanere, anche per lungo tempo, privo di qualsiasi ulteriore supporto economico; g) la peculiarità dello stato di bisogno che fonda l’assegno in parola esclude qualsiasi discriminazione rispetto al lavoratore che non sia afflitto da analoga invalidità e rende giustificata la scelta discrezionale operata dal legislatore (art. 1, co. 10, l. n. 222/1984); h) la possibilità per il percettore dell’assegno in parola di continuare a svolgere attività lavorativa, ovviamente nei limiti delle sue ormai ridotte capacità, non varrebbe a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento, in quanto le eventuali somme riconosciute a titolo di integrazione al minimo, quindi, sarebbero comunque coinvolte nella riduzione percentuale del trattamento.

[3] In tal senso, assume valenza il richiamo operato dalla Corte ai propri precedenti riguardanti scelte sì discrezionali riservate al legislatore e dunque non a rime obbligate bensì a rime adeguate (così, punto 3 del diritto.)

[4] Ad es., Corte cost., ord. n. 207/2018, punto 10; sent. n. 242/2019, punto 2.5.; si tratta, com’è noto, del meccanismo in virtù del quale, a tutela dei diritti incomprimibili, la Corte emette un’ordinanza monito con quale assegna un termine al legislatore affinché il legislatore possa trovare un rimedio idoneo a rimuovere il ravvisato vulnus costituzionale; ove il monito rimanga senza riscontro, fa seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalità; in proposito - ha precisato la Corte nell’ord. n. 207 -, i delicati bilanciamenti di valori di primario rilievo, in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale, “restano affidati, in linea di principio, al Parlamento”, essendo compito naturale della Corte “quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali”, nella specie, di tutela dei diritti fondamentali coinvolti. Laddove, peraltro, l’espediente della “doppia pronuncia” non può ritenersi “a perfetta tenuta”, in quanto, decorso infruttuosamente il termine di messa in mora del Parlamento (unilateralmente stabilito dalla Corte), si ripresenterà alla Corte medesima la situazione di partenza, quella di non invadere ambiti ad essa preclusi (art. 28 l. n. 87/1953), poiché riservata alla discrezionalità politica della sovranità.



Execution time: 35 ms - Your address is 216.73.216.214
Software Tour Operator