
Scriveva Rousseau che il giudice, in quanto difensore delle leggi, dispone di un potere più ampio addirittura di quello del principe che applica le leggi ovvero del sovrano che le promulga. La legge n. 40 del 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita sembrerebbe avvalorare l’assunto, esaltandolo, peraltro, nell’esperienza giuridica europea, in ragione del rapporto dialogico tra ordinamenti e, più in particolare, tra giudici. Invero, la legge n. 40 del 2004, oggetto di diverse pronunce, non solo dei giudici nazionali, ma anche di quelli sovranazionali, ha dato luogo ad una serie di problematiche di coordinamento riguardanti gli operatori giuridici agenti nelle diverse sedi istituzionali. Nello specifico, la normativa in questione ha spesso dato luogo a pronunciamenti, talvolta manipolativi, delle disposizioni di volta in volta censurate, a dimostrazione dell’insofferenza, da più parti avanzata, nei confronti di una disciplina che, toccando questioni di particolare rilievo etico e involgendo interessi differenti, tra di loro anche contrapposti, avrebbe necessitato forse di una maggiore e più strutturata ponderazione nelle aule parlamentari. La recente sentenza n. 84 del 2016, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in tema di divieto di sperimentazione sugli embrioni umani, per la pluralità delle soluzioni normative e nel rispetto della discrezionalità del legislatore, rappresenta l’ultimo tassello nella costruzione – recte, ricostruzione – del quadro normativo in rilievo ad opera del giudice costituzionale.
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