
L’istituto dell’iniziativa legislativa popolare è tornato da qualche tempo al centro dell’interesse della classe politica, che su di esso ha addirittura fatto leva per descrivere il senso e l’impellenza di riforme complessivamente orientate a ri-disegnare la forma di governo. Ci si riferisce – come è ovvio – alla particolare, per certi versi nuova e strumentale enfasi mostrata dai proponenti della riforma costituzionale c.d. Renzi/Boschi e da parte della dottrina, indirizzata a spiegarne il rilievo decisivo nel sistema (ridisegnato) dei contropoteri costituzionalmente garantiti e destinati – secondo le intenzioni dichiarate – a compensare il rafforzamento dell’Esecutivo. Identica vis ha condotto gli stessi esegeti della riforma a stigmatizzarne il rarissimo utilizzo, portato ad esempio della deriva elitaria dell’assetto partitico italiano e, soprattutto, dei problemi strutturali della forma di Governo. In verità – è appena il caso di ricordarlo – l’obiettivo della revisione era ben più ampio. Essa si proponeva, infatti, di innovare direttamente il numero e le modalità di funzionamento degli istituti partecipativi previsti dalla Carta, ripensandone, per più di un verso, la funzione nel sistema. A tale obiettivo si addiveniva: a) modificando le condizioni di esercizio dell'iniziativa legislativa popolare (innalzando a 150.000 elettori la soglia minima per la presentazione delle richieste); b) affidando, al contempo, ai regolamenti parlamentari il delicatissimo compito di stabilire forme, limiti e modalità temporali della discussione e della deliberazione conclusiva sulle proposte presentate dagli elettori; c) prevedendo, infine, che con legge costituzionale fossero stabilite condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali... (segue)
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